Su Nature di oggi, Richard Harris scrive che gli science studies – o di sociologia della scienza – hanno conosciuto due ondate. Nella prima, la conoscenza scientifica era il top e i sociologi cercavano di identificare il tipo di società cui avrebbe portato. Nella seconda, era una forma di fede, o di politica. I suoi studiosi erano diventati scettici, cinici, costruzionisti, relativisti cognitivi: ogni risultato scientifico era considerato valido tanto quanto altri costrutti sociali e culturali.
Ya basta, è il momento del “modernismo elettivo”, scrive Harris:
In una società elettivamente moderna, la libera critica delle idee sarebbe un bene; le conoscenze sul mondo naturale sarebbero perseguite attraverso osservazioni, teorizzazioni ed esperimenti, invece di rivelazione, tradizione, studio di libri dalle origini oscure o costruzione di alleanze fra potenti. I risultati della scienza vanno preferiti alle verità rivelate dalla religione, e sono più coraggiosi della logica dello scetticismo, ma non sono certi. Sono un miglior fondamento per una società precisamente, e unicamente, perché sono provvisori.
Il saggio è sostanzioso. Parla anche dell’esperimento Michelson-Morley, di Thabo Mbeki a proposito di HIV-AIDS, di scienziati inclini a paragonare la propria opera a quella di Dio (Craig Venter?), di valori della scienza che la società dovrebbe adottare. Per me “valori” è una parola un po’ problematica.
Comunque volevo solo darne un assaggio.
A ridaje
Notare la coincidenza con il dibattito in USA sul ruolo della ricerca scientifica in faccende sociali e politiche. E con altri due editoriali, da sommare alla dozzina precedente, che danno istruzioni a Barack Obama.
Al suo posto comincerei ad averne ralbol.