Due mesi fa, ho tentato di spiegare anche su Oggi Scienza il fallimento – secondo me – delle ricerche dello psicologo Robert Plomin e seguaci in “genetica dell’intelligenza” e del “successo”.
Riass. punt. prec.
Hanno creato un “indice poligenico”, un punteggio per le correlazioni tra certi alleli condivisi da parenti e i risultati a scuola, per esempio. Nella varietà del genoma umano è inevitabile che saltino fuori correlazioni del genere, qualcuna sicuramente interessante. A quale tratto o comportamento contribuiscono le proteine codificate da quell’allele? Quale comportamento potrebbe averne modificato l’espressione? Ecc.
Plomin et al. non se lo chiedono nemmeno. Trasformano le correlazioni in cause con un determinismo pervicace – molto adatto allo Zeitgeist, tra l’altro, fornisce “evidenza scientifica” alle discriminazioni, ai decreti di Trump o di Salvini.
Fine del riass. punt. prec.
Rimandavo a poche critiche, una da addetti ai lavori, perché non ero riuscita a trovare interventi decisi come quello di Dick Lewontin contro le tesi di Arthur Jensen (quello di Evelyn Fox Keller mi è stato utile, ma riguarda il dibattito “nature vs. nurture” in generale). Dopo averne parlato con parecchi ricercatori, “mi ero fatta una mia idea”. Magari sbagliata. Pazienza, mi sarei corretta come le altre volte.
Ieri su Nature è uscita la recensione del nuovo saggio di Plomin, Blueprint: How DNA Makes Us Who We Are (Penguin):
Genetic determinism rides again.
Nathaniel Comfort questions a psychologist’s troubling claims about genes and behaviour
Giusto quello che mi serviva… se sapevo aspettavo!
Comfort è uno storico della genetica alla Johns Hopkins. Di suo ho letto soltanto The Tangled Field, un bel libro su Barbara McClintock – in disaccordo con quello di Evelyn Fox Keller sul quale anche Lewontin aveva da ridire – qualche post di Genotopia e la sua recensione di A Troublesome Inheritance e altri vangeli del razzismo pseudo-scientifico.
Scrive bene e non ha peli sulla lingua. Da storico, inserisce Plomin in
a dark tradition of hereditarian social science that would subsequently emerge in books such as The Bell Curve [di Charles Murray e Richard Herrnstein]. Blueprint uses language, imagery, rhetoric, conclusions and numbers that will be familiar to readers who have, like me, slogged through all these works. A sobering theme of most, Blueprint included, is their aspiration of shaping social policy
Nelle scienze sociali, l‘ereditarismo nasce e rinasce da molto prima delle tesi razziste di Jensen:
Crude hereditarianism often re-emerges after major advances in biological knowledge: Darwinism begat eugenics; Mendelism begat worse eugenics.
Oggi riemerge dagli studi di associazione sull’intero genoma (GWAS) e dai “punteggi poligenici” che dovrebbero spiegare geneticamente – e quindi prevedere – l’intelligenza, il successo negli studi, negli affari, o “una scelta elettorale”.
Plomin non è un ereditarista “grezzo” come Murray o Nicholas Wade. Ogni tanto dice che i fattori ambientali contano. Poi ne ignora l’influenza in Blueprint (le citazioni fanno rizzare i capelli) esattamente come nei suoi articoli scientifici.
Come la critica (lunga!) di Graham Coop ai punteggi poligenici, la recensione di Comfort è da leggere e far girare, insomma. Aggiungo solo che paragona l’ideologia di Plomin a quella di autori anglosassoni; nell’ottantesimo anniversario del “Manifesto degli scienziati razzisti” spero che ai lettori italiani ne vengano in mente altri. Conclude:
To paraphrase Lewontin in his 1970 critique of Jensen’s argument, Plomin has made it pretty clear what kind of world he wants. I oppose him.