Watson e l’Africa (cont.)

Avevo trascurato le puntate successive, ma un’amica me le ricorda e mi manda questo link al New York Times del 12 dicembre, che le riassume.

“Una nuova analisi del genoma di James Watson mostra che ha 16 volte più geni considerati di origine africana di un europeo medio,” secondo Kari Stefansson, il direttore generale di DeCODE Genetics che ha fatto quell’analisi.

Watson non ha commenti, dice il suo “agente pubblicitario”. Ne ho due, tra molti altri.

Pubblicità  

Rendere pubbliche le sequenze del proprio Dna, nelle intenzioni dichiarate da Watson (e da Craig Venter), doveva incoraggiare tutti noi a farci mappare il genoma per poi diminuire i rischi per certe malattie e addirittura prevenirle cambiando stile di vita o magari con interventi farmacologici, genetici ecc. Pubblicità a fin di bene, diciamo, per una medicina “predittiva”, per chi la produce come la DeCODE, per i libri di Watson (e Venter).

Incertezza

Stefansson dice al NYTimes che non è stata la sua azienda a produrre il genoma di Watson per cui “è riluttante a dare molto peso a quei dati”. Infatti. Per ora non esiste un genoma europeo medio, lui non ha certezze, ma un’opinione fondata sul data-base di DeCODE, composto al 99% di Dna ottenuto da cittadini islandesi.

Incertezza, ma visto che è pubblicità…

Questa volta il NYTimes scrive che Stefansson dirige la DeCODE e i lettori capiscono da soli come mai ha investito soldi e tempo sui geni di Watson. Senza avvisarlo, pare. Perché farlo, sono pubblici, no? Watson è “l’arroseur arrosé”, però ha ottimi legali.
(Continua.)