Madagascar è più grande della Francia, questa volta ne ho visitato un pezzo al centro e un altro al sud, percorrendo migliaia di chilometri in macchina e aereo da una foresta all’altra, ma i lemuri meritano. Anche gli uccelli, i camaleonti, i gechi, le rane, gli artropodi – ragni, insetti stecchi e, nonostante fosse inverno, le farfalle – e palme, palissandro, baobad endemici, cactus ecc. mi affretto a scrivere prima che gli amici erpetologi, entomologi ecc. protestino.
Ma i lemuri…
Per raggiungerne le foreste – quel che resta, l’85% è stato eliminato nelle ultime due generazioni – si passa attraverso una povertà che fa star male (è fra i venti paesi più poveri del mondo). Nei parchi è vietato dare da mangiare agli animali ma certi piccoli lemuri frequentano le aree da picnic, si segnano i posti dove qualcuno ha dimenticato qualche boccone, e quando la gente se ne va vengono a prenderlo. Ancora non rubano dai piatti, come i cebi brasiliani, solo perché sono più signori.
In libertà abbiamo visto una dozzina di specie, mentre ce ne sono più di settanta. Come tutti, siamo stati sedotti da quelli più grandi, i maki, i sifaka dal diadema. E soprattutto gli indri, magnifici, che al mattino cantano in coro, una melodia malinconica su poche note, con versi ripetuti da altri gruppi, un po’ simile al canto delle balene. Poi cominciano a spostarsi.
Più alti e snelli degli scimpanzé con una coda di 4/5 centimetri – unici, credo, fra i primati ad averne solo una traccia, come noi – e molto più aggraziati, gli indri usano i rami come trampolini, flettono appena quelle gambe interminabili e spiccano il volo.
(Lo metto tra parentesi, perché è da Walt Disney, ma i piccoli si attaccano da poppanti alla pancia della madre e da semi-svezzati alla schiena. Quando lei si ferma a foraggiare, loro si esercitano cercando di allontanarsi un po’ sul ramo o di allungarsi verso un altro. Di solito si spaventano, e corrono a nascondersi la faccia nel pelo di lei. Niente da fare, non si vorrebbe offendere, si cerca di mantenere il silenzio, ma scappa da ridere).
Finché scoprono il posto giusto dove gli alberi hanno germogli teneri, e una volta sazi si stendono a coppie, si puliscono, si scaldano, s’appisolano.
“Tana”
Da lontano, pare una città tipica di certe province francesi (bassa Borgogna, per dire), distribuite sulle colline ci sono case a due e tre piani con il tetto di tegole rosse, spiovente, da vicino sono quasi tutte sventrate, senza luce né acqua, e le ville dei ricchi e potenti, pochi ma si fanno pesantemente sentire, sono in sobborghi distanti.
Dopo il calar del sole (18.30, in questo periodo) sono accesi pochi lampioni e le insegne di qualche bar che ha un generatore. L’elettricità c’è, ma come nei villaggi e le altre città dove siamo passati, la gente non se la può permettere. E’ la sorveglianza, piuttosto insistente (blocchi stradali, quando sulla RN7, la più grande arteria del paese, passano un paio di auto o camion all’ora, controllo documenti per strada ecc.) a fare sì che diversamente dall’India, o dal Brasile, non ci sono allacciamenti abusivi della corrente?
A Tana, spesso non c’è l’acqua corrente, né i servizi igienici. Eppure è la capitale, sta al centro della provincia più ricca, e c’è acqua nei fiumi e nelle risaie che ne circondano le colline.
Rimando a wiki, i cui dati non sono molto aggiornati. D’altronde neanche quelli della Banca Mondiale. Solo poche aggiunte.
Il “palazzo reale estivo” – su una collina a 23 km da Tana, patrimonio dell’Unesco, in realtà sono due. Una “case” tradizionale e un’ornatissima villa franco-tirolese, in palissandro anch’essa, di metà Ottocento, ammobiliata nello stile borghese di allora.
Avevo per guida una signora, insegnante in pensione. Nella villa della regina, quando si è messa a parlare di Ranavalona III, si è molto scaldata. “Dicono che era crudele (aveva fatto uccidere missionari e convertiti, ndr). Non è vero. Era una… una patriota!” A parte una coppia italiana in viaggio di nozze, gli altri visitatori erano malgasci e hanno cominciato a discutere, prima in francese ma presto in malgascio, dissentivano, questo era ovvio.
Al baretto dopo la visita, le ho chiesto di farmi un riassunto del dibattito. Eccolo: “Le giovani generazioni sono ignoranti”. Poi abbiamo chiacchierato di politica fino alla chiusura, quindi non metto il nome.
I culti tradizionali sono tuttora praticati, per es. quello di disseppellire a date regolari le ossa dei morti e di riseppellirle dopo una festa a base di zebù, danze e canti, in un sudario nuovo di seta bianca, locale e più pregiata di quella gialla. In questo caso, le tombe sono molto più ampie delle capanne, costruite vicino a qualche strada in campagna, in pietra, ornate con murales che ricordano quello che il o la defunta amava (Rambo ha avuto un grande successo, di recente), con ai lati del tetto corna di zebù e un totem – animale o pianta – entrambi di pietra. Convivono con decine di culti cristiani, molti arrivati dagli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, o comunque dopo la caduta del regime socialista.
L’unico viale a doppie corsie di Tana, a parte l’avenue de l’Indépendance che porta alla stazione, è l’avenue des Hydrocarbures: oltre alle sedi di Total e delle sue sorelle, porta a una moschea nuova fiammante, con accanto una madrasa.
Fra i Bara – una tribù nella zona dell’Esalo – per poter chiedere la mano di una ragazza, lo spasimante deve rubare uno zebù a qualcuno della comunità e darlo al padre di lei. Mi sembra strano, di solito le usanze che distruggono la fiducia e non servono la comunità, non durano. Ma essendo chiuso per restauri il museo di antropologia, nessuno ha saputo spiegarmi come mai questa esista ancora.
Ho buscato più virus in questi giorni che in una vita, perdonate i non sequitur. Riprendo il tran tran ochesco – “Mad” esporta foie gras – quando va meglio.