Hans Magnus Enzensberger, come altri intellettuali, dubita della validità dei test d’intelligenza per vari motivi, innanzitutto perché è una facoltà la cui definizione cambia a seconda di quello che si vuol misurare e della destinazione del risultato. E’ vero, scrivono sui PNAS Angela Lee Duckworth dell’università della Pennsylvania et al.,
le associazioni predittive tra punteggi di QI e gli esiti successivi sono tipicamente interpretate quali stime imparziali dell’effetto dell’abilità intellettuale sul successo accademico, professionale e nella vita.
Dalla loro ricerca, associazioni e stime sono infondate. Da un lato hanno assegnato test accompagnati o meno da denaro o merendine a 2.008 volontari che ne avevano già passato uno simile, e il punteggio aumentava di 0,64 in caso di incentivo, parecchio di più se era già alto in partenza. Dall’altro hanno fatto analizzare da ricercatori indipendenti i filmati di 508 ragazzini che passavano il test verbalmente nel 1987 e con i quali i ricercatori del Pittsburgh Youth Study erano rimasti in contatto.
I tre hanno valutato i segni di scarsa motivazione, disinteresse, impazienza, voglia di andarsene ecc. e trovato che erano più numerosi quando il QI era basso. Una volta tenuto conto della valutazione, il punteggio del QI restava correlato con i risultati scolastici, ma non con la probabilità di condanne penali, con la disoccupazione, la durata dell’insegnamento superiore ecc. L’implicazione quindi è che
ottenere un punteggio elevato per il QI richiede molta intelligenza e molta motivazione. Punteggi bassi invece possono risultare sia da una maggiore intelligenza che da una minore motivazione.
Il quoziente di motivazione è già noto agli insegnanti, ai datori di lavoro e a chi somministra i test. Ma la Duckworth dice che economisti, politici e anche parecchi psicologi prendono davvero il punteggio del QI per una misura dell’intelligenza tout court. D’altronde pur standardizzato com’è, misura altre variabili che sono indici di successo come la qualità dell’educazione ricevuta fino a quel momento a scuola e a casa. La sicurezza o no, la voglia di farcela o no di un ragazzino pioveranno mica dal cielo.
Nucleare, sì, ma… prima i soldi
Il MIT ha aggiunto un rapporto a quello aggiornato anno e mezzo fa sull’energia nucleare per tener conto dell’incidente a Fukushima-1. Ho letto solo l’Executive Summary, poi me lo studio. Comunque raccomanda tuttora generosi incentivi per mantenere aperta “l’opzione nucleare” visto che senza non avrebbe mercato, ma anche una gestione meno rischiosa del combustibile, quindi impianti più costosi e tempi di costruzione ancora più lunghi. Il finale sugli investimenti federali necessari la dice tutta anche se è scritto in piccolo:
Stimiamo appropriato un miliardo di dollari all’anno per sostenere i programmi di ricerca e sviluppo e infrastrutturali. Ulteriori finanziamenti saranno necessari per progetti governo-industria di dimostrazione su larga scala nei tempi appropriati.
Forse non è appropriato, ma stimo che, da primo politecnico del paese, il MIT è quello che conta di più sui finanziamenti sia dal governo che dall’industria nucleare per i suoi programmi di ricerca.