Renato Dulbecco

Da qualche parte ho un’ intervista del 1993 o del 1994 – partecipava spesso alle conferenze Nobel che organizzavamo a Milano – e pensava ancora che qui, dove tornava metà dell’anno, sarebbe riuscito a far decollare il contributo italiano al Progetto genoma umano. Poi l’aria è cambiata, i soldi non c’erano più, dopo Ruberti la scienza importava meno. E ho avuto l’impressione che ai vertici del CNR qualcuno fosse contento di vederlo andarsene. Faceva troppa ombra.

Comunque preferiva stare a La Jolla, vicino al Salk e la sua casa, almeno fino a pochi anni fa, ne era come l’estensione. L’autobiografia che ha scritto per il Nobel gli somiglia, fair, sicuro e insieme understated. Non so come faceva, ma condensava quantità di idee in poche parole, con una facilità, una semplicità che, secondo Rita Levi-Montalcini, aveva sempre avuto. Non ne sono sicura, perché gli veniva meglio in inglese. Un insegnante eccezionale anche per una giornalista.

Scrupolosamente gentile, attento a chi aveva intorno. Qui era più formale, in California era sempre un po’ auto- ironico, forse perché non voleva essere considerato un monumento. Invece era considerato proprio così. I Nobel spettegolano come tutti, ma su di lui non ricordo una critica, nemmeno da Watson.