Se siete da queste parti


Alle 17.30, nella libreria Cortina di via Pascoli 70 – metro Piola – Guido Barbujani presenta Lascia stare i santi. Il libro fa molto ridere. Racconta le disavventure durante un viaggio in Siria e nelle religioni locali del genetista Guido B. “distruttore di reliquie”, quello che ha “spaccato i denti a Luca” inteso come l’evangelista per sequenziarne il Dna mitocondriale e determinare l’origine: greco? turco? siriano?

Alle risate fanno da sfondo altre storie, alcune belle altre tristi, di scienza e di persecuzioni, e le sorprese di una collaborazione multidisciplinare organizzata dal vescovo di Padova che afferra al volo il concetto di probabilità e non se la prende quando Guido B. non fa il segno della croce all’inizio della prima riunione, come fanno tutti gli altri.
Non dovreste annoiarvi, penso.

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Rimbambiti più tardi

Se l’allele KL-VS verrà presentato dai media come il “gene dell’intelligenza”, sarà un’esagerazione. Durante i test di attenzione, memoria, percezione spaziale e linguaggio, le prestazioni dei suoi portatori – circa il 20% della popolazione – sono migliori rispetto alla media dei bianchi americani, scrivono Dena Dubal, Lennart Mucke et al. su Cell Reports.

Hanno un quoziente di intelligenza di 106 invece di 100, una differenza non eccezionale, comunque la ricerca un po’ più convincente di altre. Il gene KL codifica per la proteina Klotho, già nota per “allungare la vita” nel senso di proteggere gli anziani da problemi cardiovascolari. Nei topi ingegnerizzati per fargli esprimere più proteina, aumenta il numero di certi recettori nell’ippocampo e la corteccia frontale (la “plasticità sinaptica”), e  “l’intelligenza” raddoppia rispetto a quella dei topi non ingegnerizzati. Come se esistesse una misura del QI murino.

Il com. stampa dell’univ. California-San Francisco è un po’ trionfalista, nei tre anni di studi la proteina non ha protetto i topi dal declino cognitivo associato all’età.

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Natura/Cultura
Forse perché le ricerche in psicologia spesso non sono replicabili, prenderei con le pinze i risultati pubblicati dal dottorando Thomas Talhelm et al. su Science, con tanto di copertina. Dicono che una storia di coltivazione del riso ha dato agli abitanti Han sulla riva sud dello Yangtze una “cultura” più olistica, un maggior rispetto per la famiglia e uno spirito più collaborativo e centrato sul proprio gruppo, mentre sulla riva nord la coltivazione del frumento ha reso gli abitanti più indipendenti, analitici e aggressivi.

Il riso richiede più mano d’opera e una sincronizzazione del lavoro, quindi lo Yangtze divide la mentalità altruistica, tipica dei valori tradizionali del confucianesimo – o del maoismo, volendo – dei meridionali dall’egoismo “occidentale” dei settentrionali.

Mouais… Certo, l’ambiente influenza la cultura, ma anche vice versa. Vengono in mente regioni senza riso che hanno pratiche agricole simili, per esempio nel nord Africa dove  i canali di irrigazione vanno mantenuti tutto l’anno, o fra i tropici latino-americani dove si semina tutto l’anno. E non vedo proprio come risolva il problema dell’uovo e della gallina un questionario somministrato a 1.162 studenti di 6 grandi città a nord e a sud del fiume per sapere se si sentono più individualisti o più collettivisti.

D’altronde dubito che la ricerca sarebbe stata autorizzata dalle autorità accademiche cinesi se Thomas Talhelm avesse incluso domande riguardanti l’orientamento politico degli studenti…