Da questa settimana, il fisico dell’atmosfera Ken Caldeira di Stanford ha un blog sul clima e i media dai quali è stato spesso frainteso. A proposito del rapporto delle American Academies of Sciences Climate Intervention, di cui è uno degli autori, ha scritto un commento all’articolo che gli ha chiesto un quotidiano:
Fast, cheap and easy… and very dangerous.
Rammenta ogni volta che l’ingegneria del clima è l’ultimo ricorso, una volta che il paziente è arrivato “in sala di rianimazione”. Dopo decenni a predicare tagli alle emissioni di gas serra, nel deserto, pensa che sia indispensabile un piano B, non importa se preparato da enti pubblici o da aziende private, rif. il suo dialogo con Clive Hamilton sul Guardian.
Aveva lavorato con Teller per conto della Difesa su come modificare il clima del nemico, forse preferisce che la tecnologia non finisca in mano ai militari.
Anche Peter Frumhoff, dell’USCSA, dice bene del rapporto delle AAS, e chiede più ricerca sul clima per poter valutare con un minimo di dati evidence-based i rischi della geoingegneria. Tutti sono d’accordo, non esiste alternativa a una riduzione del 90% delle emissioni, ma mentre continuano ad aumentare nessuno risponde all’obiezione di David Keith et al.:
reducing carbon emissions won’t solve our climate problems; it can only stop things from getting worse. Put bluntly, if we miraculously stopped all CO2 emissions immediately, the Earth would keep warming for decades, and much of the CO2 emitted since the Industrial Revolution would remain in the atmosphere, altering the climate, for millennia.
Very dangerous anche questo. Resta da sperare che, come dicono ricerche recenti, dibattere di “geoingegneria solare” sui media fa capire meglio i rischi del risc. globale al grande pubblico.
Ormai, più che discutere di Piano B, io continuo a pensare al Piano C: a cosa, cioè, riusciremo a trasmettere delle nostre conoscenze – scientifiche e non – ai sopravvissuti a questo “bottleneck century” (per dirla con Catton). Sempre sperando che ve ne siano…
Parlare di aerosol è come parlare non di rianimazione ma di terapia del dolore. Visto che sarebbe molto più difficile trovare un accordo sul come, quando e quanto delle operazioni, personalmente lo vedo possibile solo in caso di disastro globale conclamato. In altre parole, a collasso globale avvenuto un gruppo di paesi si farebbe carico unilateralmente dell’operazione.
Non sono daccordo con Parker e Keith nemmeno sulla sostanziale inutilità della riduzione delle emissioni. Vero che anche a smettere oggi di emettere il pianeta continuerebbe comunque a scaldarsi ancora per un po’ e che ci sarebbe uno scotto da pagare ma, da quanto può dirsi al momento, non sarebbe drammatico.
Riccardo,
gli aerosol mi sembrano barking mad. Dicono che bisogna ridurle assolutamente, nel suo libro Keith dice che è l’unica “alternativa razionale”, ma osserva che non sono mai aumentate così rapidamente come in questi dieci anni.
BTW, nel disegno ci sono gli alberi geneticamente modificati; si fanno già, in Brasile provano gli eucalipti. Ma non li prende in considerazione nessuno – forse perché richiedono terre coltivabili.
ocasapiens
tutto è utile nulla singolarmente è risolutivo, e questo è un serio paridigm shift. Piantare alberi non può bastare nemmeno se smettissimo di deforestare. E se propio hai voglia di catastrofismo, in un periodo un po’ più lungo di quanto siamo abituati a considerare, nemmeno le rinnovabili bastererebbero se continuiamo così. A meno di nuove fonti di energia dovremo trovare il modo di fermare la crescita dei consumi.