Insicurezza alimentare

Il World Food Programme dell’Onu ha ricevuto il premio Nobel per la pace, un appello a mantenerlo in attività. Dall’inizio dell’anno è costretto a ridurre di circa un terzo il cibo che distribuisce, e di metà nello Yemen controllato dagli Houthi. Grandi paesi donatori non mantengono gli impegni né fanno pressione sui gruppi che armano perché concedano tregue e corridoi umanitari.

Così le persone che soffrono la fame aumentano dal 2015 per colpa dei conflitti armati, degli eventi meteo estremi aggravati dai cambiamenti climatici e ora della pandemia.

L’altro ieri la Banca Mondiale pubblicava le stime della popolazione che vive in povertà estrema (meno di $1,90 al giorno). Declinava da vent’anni, nel 2020 si prevede che aumenti di 88-113 milioni e l’anno prossimo arrivi a 150 milioni

  • as the disruption of the COVID-19 pandemic compounds the forces of conflict and climate change, which were already slowing poverty reduction progress.

L’aumento riguarda innanzitutto i paesi a “medio reddito”.

Oltre a essere l’anno delle locuste, il 2020 è anche quello degli incendi accesi per piantare soia o far pascolare il bestiame in gran parte del Sudamerica, sui quali il Guardian pubblica un aggiornamento un po’ impressionante.

Il vertice sulla biodiversità, convocato a fine settembre (in remoto) dal Segretario dell’Onu è stato un fallimento. I leader di 76 paesi hanno promesso di fermare la distruzione entro il 2030, ma fra la maggioranza degli astenuti ci sono i “leader” schierati contro la biodiversità: gli USA, il Brasile, l’Australia e soprattutto la Cina che l’anno prossimo ospiterà la COP15, l’assemblea dei paesi firmatari delle convenzioni internazionali in materia.

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Su Science, l’editoriale di Holden Thorp spiega inutilmente a Trump perché “le parole sono importanti”; quello di Scott Miller e Peter Raven – un gentiluomo incantevole, presidente emerito del magnifico Missouri Botanical Garden – è sulla biodiversità che scompare e sulle collezioni di specie, raccolte dai vari istituti di storia naturale, che vengono abbandonate per mancanza di fondi e di personale.

Però su Science Advances ho trovato una buona notizia. Nel 1933 le praterie di vallisneria (? eelgrass) nelle lagune della Virginia erano state distrutte da un’infezione e da un urgano, e le attività che ne dipendevano come turismo e pesca avevano chiuso.
Poi cinquant’anni dopo qualche ciuffo è rispuntato qua e là dal fondale. A cavallo del secolo le lagune sono state “inseminate” da ricercatori e volontari su grandi estensioni – 0,2-0,4 ettari per volta. Poco a poco l’ecosistema è stato ripopolato – a mano all’inizio, come le cappesante portate nel 2008 – e le comunità costiere convinte a non riversare acque inquinate nelle lagune.

Adesso che la varietà di fauna e flora è tornata come prima, scrivono Robert Orth et al., salvo disastri dovrebbe auto-mantenersi nel futuro:

  • These combined efforts by academic, nonprofit, and citizen groups stand as one of the more successful marine restorations for seagrasses and rivals other large-scale marine restorations in terms of scope, rapidity, dedication, and organization.

(Ho tolto gli appunti sulla “Dichiarazione di Great Barrington” e l’attività dei nettascienza: dovevano servire per il post dell’11 ottobre…)