I polli di Lamarck e i galli di Darwin

Su PLoS One, uno dei mensili della Public Library of Science, Per Jensen e i suoi colleghi dell’università svedese di Linkoping raccontano l’effetto delle condizioni ambientali su successive generazioni di polli d’allevamento e di galli rossi (i Gallus gallus selvatici dai quali discendono le razze domestiche, in India ce ne sono ancora allo stato brado).

La prima generazione è stata divisa in due gruppi: galli e polli coccolati e galli e polli stressati con la luce, accesa a caso da 3 a 24 ore al giorno. Dopo quel trattamento, solo negli stressati domestici diminuiva la memoria, ma tutti quanti competevano più aggressivamente per il cibo.

La cosa curiosa è che soltanto i pulcini nati da genitori stressati domestici erano anch’essi aggressivi nel procurarsi il cibo, nonostante fosse distribuito in abbondanza a tutti e l’ospitalità decisamente da nababbi. La cosa ancora più curiosa è che nelle uova delle galline domestiche stressate, c’era la stessa quantità di ormoni da stress che in quelli delle coccolate.

Quindi l’aggressività di quei pulcini non era indotta dallo stato di salute della madre. Jensen ne deduce che gli ormoni da stress abbiano cambiato l’espressione dei geni che si esprimono nel cervello degli stressati e che sono queste modificazioni genetiche a trasmettersi alla discendenza.

Qua, non ho capito bene come i cambiamenti genetici passino dalle cellule del cervello ai gameti. Questi non sono esattamente contigui. E non dovrebbero essere “blindati”?

A parte questo, ho capito che nei polli d’allevamento – ottenuti per selezione innaturale – i figli ereditano i caratteri acquisiti dai genitori durante la propria vita, come diceva Lamarck (e Lysenko, ahinoi). Nei galli selvatici, il patrimonio genetico non risente delle esperienze dei genitori e valgono ancora le regole della selezione naturale come voleva Darwin. Il quale però era anche un po’ lamarckista e la ricerca di Jensen sembra dare ragione ad entrambi, e al buon senso.

Separare caratteri epigenetici e genetici è un buon modo, riduzionista, per fare ricerca, nella vita non funziona.

Fa pensare no? Non sono sicura di darne l’interpretazione giusta, quindi vi riferisco anche quella dell’Economist, meno scettico di me sulle deduzioni di Jensen: “la domesticazione pare proprio rendere gli animali stupidi.”

L’articolo è il primo in alto su www.plosone.org

P.S. Il secondo articolo di PLoS One riguarda la cosiddetta “suscettibilità genetica” di alcune popolazioni alla mortalità per infarto e altri incidenti cardiovascolari, quella che negli Stati Uniti fa tanto discutere perché evoca stereotipi razziali e razzisti. E alcune aziende farmaceutiche ne approfittano per prolungare i brevetti destinando farmaci vecchi a nuovi utenti dalla pelle scura…

Sian Henderson e gli altri autori hanno analizzato i dati sanitari di circa 140 mila uomini e donne tra il 1993-1996 e il 2003. Dicono che quella “suscettibilità” è ampiamente spiegata dai fattori socio-economici e ambientali. Aggiungono che resta ancora da capire come mai la mortalità sia più alta nelle donne afro-americane e in uomini e donne hawaiane.

Normalmente non mi occupo di medicina, ma ve lo segnalo per l’onestà e le belle statistiche.