Franco Battaglia coglie con delicatezza ogni occasione di far la réclame alla sua fonte d’energia prediletta e di arrotondare lo stipendio di professore universitario. A proposito del terremoto in Giappone, sabato scriveva:
Troppe bugie sul nucleare, le centrali restano sicure.
Non ho idea di come stanno titolando i giornali oggi, visto che quel che state leggendo in questo momento lo scrivevo ieri. Ma, se tanto mi dà tanto, posso immaginarmi: quando il Giappone fu colpito dal sisma del luglio 2007, la Repubblica, con non poco cinismo, titolava, in prima pagina, «Terremoto in Giappone, fuga radioattiva», in seconda pagina, «Paura nucleare», e «Incubo per un’altra Chernobyl», in terza. Non poco cinismo, dicevo. Smodato, dovrei dire.
Immaginato il tutto e senza alcun cinismo proseguiva:
I reattori nucleari sono progettati in modo da spegnersi automaticamente alla prima sollecitazione sismica. Così è accaduto in occasione dei 9 potenti terremoti occorsi in questi ultimi 10 anni, incluso quello del luglio 2007, il cui epicentro si localizzò a pochi chilometri di distanza dal più grosso reattore nucleare giapponese. E così è accaduto col terremoto di ieri, quando 11 reattori più vicini all’epicentro si sono automaticamente spenti. Né, in questi 10 anni, alcuna fuga radioattiva degna di essere menzionata è stata riportata in alcuno dei 55 reattori nucleari installati in quel Paese (il professore continua ad immaginare, ndr).
Un reattore si spegne come un fornello a gas, dice l’esperto del giornale al quale non crede nemmeno Il Giornale.
E mentre a Fukushima non si riusciva a raffreddare il reattore 2 e bisognava rilasciare sempre più vapore radioattivo, oggi il professore fa un’altra réclame originale:
i Paesi che ospitano gli attuali 64 reattori nucleari in costruzione nel mondo o che intendono sviluppare il nucleare hanno ora un motivo di più per perseguire nel loro intento: devono solo osservare che se in Giappone non vi fosse stato alcun reattore nucleare, non sarebbe stata risparmiata neanche una vita delle migliaia di quei poveretti che l’hanno perduta.