Al Gore e le nevi del Kilimangiaro

Su American Scientist, il bimestrale della federazione degli scienziati americani (queste unioni, associazioni, federazioni sono gli unici sindacati i cui iscritti aumentano), Philip Mote e Georg Kaser spiegano perché il Kibo, il grande ghiacciaio del Kilimangiaro, non va preso come simbolo del riscaldamento globale.

L’articolo esce sul numero di luglio-agosto, riassumo. Nel caso del Kibo, il cambiamento climatico c’entra, ma poco, per vie indirette. I ghiacciai tra i tropici, già di per sé “meritano una spiegazione”. In generale, sublimano – invece di sciogliersi  come gli altri – per via della radiazione solare. Sono le precipitazioni a modificarli.

Le nevi perenni tanto decantate dagli esploratori della regina Vittoria erano eccezionali, probabilmente dovute a periodo di piogge particolarmente abbondanti. Stanno sublimando (evaporando) dagli anni Cinquanta, e il loro andamento degli ultimi 20 anni non coincide con l’impennata delle temperature, al contrario di quanto succede agli altri ghiacciai.

Aggiungo di mio foto di quest’inverno

Al Gore – dice la redazione, non gli autori dell’articolo, e dicono oggi vari media – doveva evitare di usare il Kilimangiaro in An Inconvenient Truth (anche se le foto “prima e dopo la cura” sono impressionanti: è smagrito del 90% nel giro di un secolo).

Con tutti i ghiacciai alpini – i più studiati e da più tempo – e gli altri nelle zone temperate e fredde che si stanno squagliando, poteva sceglierne un altro. Però Hemingway c’è in tutti i libri di lettura delle scuole americane. E pare che gli effetti peggiori si faranno sentire in Africa, come promemoria non è nemmeno male.

E se Gore usava uno dei ghiacciai statunitensi a pelle di zigrino, per esempio il Muir in Alaska citato proprio dagli autori per lo squagliamento accelerato, gli americani magari si spaventavano di più e lui si sentiva colpevole di allarmismo…

Comunque fa piacere che i media parlino di American Scientist, un bimestrale con ottime recensioni e dove scrive, tra altri, Roald Hoffmann. Non solo per amicizia, raccomando la sua rubrica “Legally Sweet“, storia divertente e istruttiva di dolcificanti, olio d’oliva e processi miliardari.