Son cozze acide

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Non dovevo, scusate il titolo intanto perché nella foto sono coccolitofori, il fatto è che ci sono rimasta comme due ronds de flan. Non c’entra l’acidità negli allevamenti industriali di bovini questa volta, ma quella dei mari causata dalla nostra CO2 (che si distingue da quella naturale perché il suo atomo di carbonio è diverso, anche se un presunto esperto di liquami americani è capace di negare anche quello, vedi commenti persistenti…).

I dati che avevo visto finora erano locali e ancora incerti, pensavo che fosse un altro “worst case scenario” dei climatologi.  Per spaventarci, con tutte le ripercussioni sulla catena alimentare…

Invece sulle Geophysical Research Letters, Robert Byrne e il suo gruppo pubblicano il pH misurato a varie profondità dall’Alaska alle Hawaii e molto al largo di entrambi, e lo confrontano con quello misurato nel 1996 e nel 2001. In quindici anni è sceso di 0,026 unità. Intendiamoci, il POTUS può tranquillamente fare il bagno dove lo faceva da bambino. Ma se fosse un coccolito e la sua signora una diatomea, suggerirei la piscina: nell’acqua anche appena appena più acida, faticano a costruirsi lo scheletro e le cozze il guscio. Com. stampa.

Sulla stessa rivista, tra valanghe di papers che saranno schivate agilmente dai bigoilisti, Alan Robock et al. valutano benefici, rischi e costi dei solfati sparati in aria per rinfrescarla, un’idea di geoingegneria del clima lanciata anche da Paul Crutzen. Rischi tanti, scrivono, tra i quali acidificare ulteriormente gli oceani.

Per tirarci su, Nature pubblica il genoma del panda gigante e ne mette due che si sbaciucchiano in copertina. Sotto c’è meno da sorridere. Un editoriale critica Rita Levi-Montalcini per come sta gestendo l’Istituto europeo per la ricerca sul cervello, mai decollato e che ora sta velocemente affondando. Un altro torna sul “clima di sospetto” instaurato dai sedicenti scettici attorno alle ricerche sul clima, adesso per la frase sui ghiacciai dell’Himalaya nel rapporto Ipcc, che dicevo ieri.

Tendiamo a reagire a informazioni come quelle sul clima in base ai nostri valori personali, stando agli psicologi della comunicazione, per cui l’editorialista – direi il diretùr, dallo stile – conclude:

La comunità dei ricercatori farebbe bene a usare una gamma variegata di voci, con formazioni diverse, quando comunica con i policy-makers e con il pubblico. E gli scienziati dovrebbero star attenti a non denigrare chi nel dibattito sta dall’altra parte: un tono rispettoso rende più facile alla gente cambiare parere se sente di aver qualcosa in comune con l’interlocutore.

Un po’ à côté de la plaque, trovo. La domanda era: come fa uno scienziato a comunicare con gente che lo accusa, per esempio qui, di fare dell’allarmismo perché ha scelto di rappresentare in rosso le temperature più calde?