Guerra e caldo

L’anno scorso l’economista  Marshall Burke dell’università della California-Berkeley et al. pubblicavano sui Pnas una correlazione “statisticamente significativa” tra gli indicatori del cambiamento climatico, piogge, temperature ecc., nell’Africa subsahariana e le guerre civili: tra il 1980 e il 2002: i conflitti aumentavano del 50% negli anni più caldi.

Nel loro modello, la situazione sarebbe peggiorata: anche se la crescita del reddito pro capite e della democrazia restava costante, entro il 2030 le guerre civili sarebbero aumentate del 54%.  Giù critiche, botte e risposte.

Oggi Halvard Buhaug, del Peace Research Institute di Oslo, pubblica “La colpa delle guerre civili non è del clima” e otto “modelli con specifiche diverse”.  La bagarre inizia dall’abstract:

Protagonisti della politica (tra cui il presidente Obama, ndt) e della pratica (sic) sostengono che la variabilità ambientale e shock come siccità e prolungate ondate di calore sono il motore delle guerre civili in Africa. Recentemente un articolo scientifico molto pubblicizzato è sembrato sostanziare l’affermazione. Qui s’indaga in dettaglio sulla presunta relazione. Con parecchie specifiche diverse per i modelli, e misure alternative di siccità, caldo e guerra civile, si conclude che la variabilità climatica non è un buon mezzo di previsione di un conflitto armato. Invece le guerre civili africane si possono spiegare con condizioni generiche, strutturali e contestuali: l’esclusione etno-politica prevalente, un’economia nazionale povera e il collasso del sistema della Guerra Fredda.

Conclusione:

Iniziative riguardanti il clima come quelle delineate dai vari Programmi di adattamento nazionale promossi dalla convenzione dell’Onu su cambiamento climatico possono avere implicazioni positive per il benessere sociale e la sicurezza umana. Ma non vanno considerate in sostituzione delle tradizionali strategie di “peace-building”. Le sfide imposte dal riscaldamento globale futuro sono troppo spaventose per lasciare che il dibattito sugli effetti sociali e le contromisure necessarie sia sviato da risultati atipici, scientificamente non robusti e da attori con conflitti d’interesse.

Visto che i dati sono completamente diversi – Buhaug tiene conto anche delle guerriglie brevi e con 25 vittime per es.  – è difficile capire quali risultati sono i più robusti. I suoi lo sembrano in parte, però senza cases studies dettagliati sul serio che al suo Istituto ci sono (e poteva usare, bastava chiederli a Niels Petter G.) pare molto rumore per niente: nessuno nega che i politici siano i primi responsabili.

E non è neppure lui immune dai conflitti d’interesse. Lavora per un ente finanziato da governi, fondazioni e agenzie dell’Onu per studiare misure di peace-building e misurarne l’effetto, non è un volontario dei Beati costruttori di pace.