Se fossi una gastronoma sarei sull’orlo del suicidio.
Dopo aver controllato 144 baie e 44 ecoregioni marittime e controllati i dati delle abbondanze registrate tra i 130 e i 20 anni prima, William Beck, Laura Airoldi et al. scrivono su BioScience di febbraio che l’85% dei banchi di ostriche allo stato brado non ci sono più; in molte baie, ne sono scomparsi il 99% e delle cinque ecoregioni del nord America dove viene catturato oltre il 75% delle ostriche selvatiche, la situazione è critica salvo nel Golfo del Messico.
In Europa, negli Stati Uniti e in Australia sono finiti. Quelli lungo le coste dell’America Latina sono gli unici risparmiati dallo sovra-sfruttamento e dall’inquinamento. Mi sento un po’ meno in colpa per l’elevato consumo di ceviche quando andavo da quelle parti. Quelli del golfo del Messico non stavano male, ma sono stati controllati prima che sapessero di petrolio.
In compenso negli allevamenti prolifera la Crassostrea gigas, che all’inizio pareva la C. angulata portoghese ma extra-large, invece era la nipponica. In Francia discende da quelle importate negli anni ’70 per supplire alla mancanza di “portugaises“, colpite da infezioni. Niente contro le giapponesi ormai assurte al rango di ostrei-monocultura, ma hanno invaso gli allevamenti delle marennes (carne grigia), belons (guscio piatto), fines de claire (carne beige) che ormai costano un occhio cad.