La leggenda del faraone


Allusione all’attualità? L’8 aprile Science titolava

La maledizione delle arterie delle mummie

L’articolo non parlava del primo ministro italiano ma di una presentazione fatta all’American College of Cardiology da Adel Allam, della scuola di medicina all’università Al Azhar e da Gregory Thomas, dell’università della California a Irvine. Hanno passato allo scanner 52 mummie: delle 44 con tessuti cardiovascolari identificabili, il 45% soffriva di ateriosclerosi. Longevità media 40 anni.

Come mai i vertici dell’Egitto erano tanto cagionevoli? Gli antichi egizi più facoltosi preferivano diete ipercaloriche, i dolci intrisi di miele per esempio, ma non fumavano e in un’epoca senza automobili è probabile che facessero più esercizio fisico di noi oggi.

Come se i ricchi di allora andassero a piedi.

Su Nature di oggi c’è una divertente inchiesta di Jo Marchant sulle polemiche attorno al sequenziamento dei geni di Tutankhamon, di dieci suoi parenti e dei loro patogeni, pubblicato l’anno scorso sul JAMA e oggetto di un documentario di Discovery Channel che aveva finanziato la ricerca:

La maledizione del DNA del faraone
Era l’ultima di una serie di analisi del DNA di antiche mummie egizie. All’apparenza la ricerca rivelava i legami di famiglia tra le mummie e le loro afflizioni, dalla tubercolosi alla malaria, conoscenze inedite sulla vita e la salute degli Egizi e annunciava la nuova era dell’egittologia molecolare. Solo che metà dei ricercatori del campo ne contestano ogni parola.

I critici sostengono che il DNA sequenziato era contaminato e che i ricercatori dovevano usare le nuove macchine oggi disponibili. Costano una cifra e siccome è vietato mandare all’estero anche un minuscolo frammento di mummia, i laboratori egiziani dovrebbero comprarle o noleggiarle, ma non hanno i mezzi. E poi dice Albert Zink, uno dei responsabili della ricerca su Tutankhamon,

Ci sono problemi politici. Un lavoro del genere potrebbe  fornire informazioni delicate sull’origine genetica dei faraoni e sulla loro discendenza viva oggi.

La trovata pubblicitaria di Howard Carter è più longeva dei faraoni.

Il sonno del neurone
Fa anche rima.

Sempre su Nature, esce una ricerca della coppia Chiara Cirelli – Giulio Tononi, celebri per aver scoperto che il moscerino della frutta dorme.  Questa volta hanno scoperto che se i ratti rimanevano svegli a lungo (erano liberi di girare in un grande labirinto) nella corteccia cerebrale gli si spegneva un’area e quella opposta no, in alternanza. Addirittura si spegnevano singoli neuroni.

Durante questi periodi di ‘sonno locale’ , la cui frequenza aumenta insieme alla durata dello stato di veglia, i ratti rimangono attivi e con un elettroencefalogramma ‘sveglio’. Tuttavia sono meno capaci di svolgere il compito assegnato (avevano imparato a cercare un pezzo di zucchero, un’attività nota per rafforzare le sinapsi della corteccia). Sebbene risultino svegli, nella corteccia potrebbero addormentarsi popolazioni locali di neuroni, con conseguenze negative sulla performance.

Secondo Christopher Colwell che commenta la ricerca, il calo della performance è la parte più ‘speculativa’, una conclusione un po’ sopra le righe però un’ipotesi che altri possono verificare. In realtà gli animali che devono muoversi continuamente, i delfini per andare a respirare in superficie e certi uccelli migratori che non fanno tappe, dormono un emisfero cerebrale per volta.

E anche se è solo un’evidenza aneddotica, potrei giurare che certi miei studenti riescono a dormire ad occhi aperti.