Consenso

Gli aerosol prodotti dai vulcani e dalle centrali a carbone rinfrescano l’aria (e la inquinano insieme ai polmoni e l’ambiente), non ci piove da mezzo secolo: that science is settled.

Da trent’anni invece si disputa sul modo migliore per stimarli, stimarne l’effetto sulle temperature e incorporare l’effetto nei modelli di evoluzione del clima. A conferma di quanto scriveva Pierluigi Battista sul Corriere l’anno scorso (candidato al premio “A qualcuno piace caldo”, vedi Climalteranti), gli scienziati tramavano per alterare i dati, renderli più allarmanti ed estorcerci più soldi. Per esempio, in questi ultimi mesi m’è capitato di leggere:

– Smith et al., Atmospheric Chemistry and Physics, gli aerosol sono di più del previsto per via delle centrali a carbone del sud-est asiatico
– Kaufmann et al., PNAS, sì, però raffreddano più del previsto;
– Vernier et al., Geophysical Research Letters, non è vero, vengono soprattutto da eruzioni vulcaniche, sono più duraturi quindi contano di più;
–  Solomon et al., Science, concorda con il precedente… ups, è lo stesso gruppo
–  Penner et al., PNAS,  però i dati usati dai due precedenti sottostimano quanto gli aerosol contribuiscono alla formazione delle nuvole e al raffreddamento.

Conclusione di tutti: that science is not settled, ci vuole altra ricerca, dobbiamo comprarci la Ferrari.

Non è settled nemmeno la variazione nel tasso globale delle precipitazioni causata dai cambiamenti climatici, ma su Nature Climate Change ho visto un modello mica male, basato sui flussi energetici:

Potrebbe essere applicato per capire meglio la risposta delle precipitazioni regionali alle varie forzanti radiative, compresi nei progetti di geoingegneria…

Quelli per sparare tonnellate di aerosol in atmosfera? D’altronde è in bozza un’analisi dei vari calcoli – da osservazioni, da modelli – della sensibilità del clima al raddoppio della CO2. Solo per chi ha familiarità con le funzioni di densità di probabilità:

Anche se la forbice – comunque misurata – delle probabilità si chiude, la probabilità cumulativa di 4,5 °C persiste ostinatamente.

Polar bear-gate, cont.
Susan Goldenberg del Guardian ha scoperto un altro risvolto comico. Proprio i  Feds dell’Ispettorato generale del Dipartimento degli interni che hanno passato mesi a indagare sui dati presunti falsi di Charles Monnet, in un articolo del 2006 su 4 orsi annegati, non hanno

incassato miliardi di royalties dalle compagnie del gas e del petrolio che operano nel Golfo del Messico e nell’Artide…

secondo un rapporto al Congresso del GAO – la Corte dei conti americana – sul “rischio elevato” di frode, spreco, abuso e mala gestione”.

Il rapporto è di febbraio, il mese in cui è iniziato il “procedimento penale” contro Monnett, e definito da venerdì non più penale, ma sempre per disonestà scientifica. Quest’ultimo punto è smentito dal direttore del Bureau of Ocean Energy Management Regulation and Enforcement, che ha sospeso Monnett dal lavoro. Comunque l’evidente caccia alle streghe

imbarazza l’agenzia la quale ha cambiato nome dopo che il disastro della BP nel Golfo del Messico aveva reso palese la relazione troppo amichevole tra l’ente governativo di controllo e l’industria che doveva controllare.

Commento di Joe Romm: “son contento che gli Interni abbiano risolto il problema con un cambio di nome”.

Nella “class action” intentata a Londra, Shell ha ammesso la propria responsabilità per la doppia rottura del pipeline nella zona del fiume e delle mangrovie di Bodo, sul delta del Niger, nel 2008. I 70.000 abitanti dovrebbero ricevere qualcosa di più delle 3.500 sterline, 50 sacchi di riso, 50 di fagioli e alcuni cartoni di zucchero, pomodori e olio.