Speranze


Fonte

Science Express anticipa un paper di Eran Halperin, della Lauder School of Government, Diplomacy and Strategy, in Israele, e del gruppo di Carol Dweck a Stanford. Per abbonati, sapete dove trovarmi. L’asbtract è chiaro sebbene ripetitivo:

Un primo studio, su un campione di 500 ebrei di nazionalità israeliana, ha mostrato che la credenza nella malleabilità di un dato gruppo consente di prevedere atteggiamenti positivi verso i palestinesi, e quindi una disponibilità al compromesso per arrivare alla pace. Tre studi successivi con 72 israeliani ebrei, 59 palestinesi di nazionalità israeliana e 53 palestinesi della West Bank mostrano che l’induzione sperimentale della credenze nella malleabilità – rispetto alla fissità – porta ad atteggiamenti più positivi verso il gruppo esterno e poi a una maggiore disponibilità ecc.

Negli studi 2 e 3 “l’induzione” consisteva nella lettura di due articoli, assegnati a caso. Uno descriveva un gruppo malleabile, l’altro uno rigido senza citare i palestinesi se i volontari erano israeliani ebrei, e vice versa. Il quarto studio, fatto a Ramallah con militanti del Fatah e di Hamas, era per controllare se, una volta esposti alla credenza nel “malleabile”, i cittadini palestinesi lo diventavano di più. Come i cittadini di Israele, si mostravano anche loro più desiderosi di incontrare gli avversari per discutere possibili compromessi.

La nostra ricerca mostra che anche nel caso di un conflitto protratto, credenze profondamente radicate potrebbero essere malleabili e che potrebbero esistere meccanismi per evidenziare atteggiamenti più costruttivi. Pensare che i gruppi hanno il potenziale per diventare avversari migliori potrebbe avere maggiori probabilità di aggirare i giudizi fissi, globali e negativi – giudizi che delegittimano o disumanizzano l’altro – anche dopo una lunga storia di reciproca animosità.

Altri condizionali speranzosi:

Sarebbe interessante determinare se l’aggiunta della componente “credenze sui gruppi” agli attuali programmi per la risoluzione dei conflitti ne accrescerebbe l’efficacia sia nel breve che nel lungo termine.

Troveranno i fondi per determinarlo?

Su Science proper, ricercatori famosi come E. O. Wilson commentano la nuova stima (8,7 milioni) delle  specie complesse esistenti, proposta da Camilo Mora et al. su PLoS Biology. Ho visto che se ne parla parecchio. Sarei contenta anch’io se fossimo in tanti, solo che ho qualche riserva. Gli autori estrapolano il numero di quelle ancora ignote dai dati sui “taxa più elevati”, dati più affidabili poiché sono i taxa più studiati. A me sembra una circolarità mica da ridere e non ho capito come eliminano il bias. Dovrei leggere tutta la bibliografia…

Fra i paper, c’è un’analisi critica dei risultati ottenuti in cinque ecosistemi marini sotto osservazione da tempo, in cui la pesca di specie in fondo alla catena alimentare avviene al “livello massimo di sostenibilità”. Ne risentono le altre specie più in alto, e redditizie, e il livello massimo andrebbe abbassato dell’80%, calcolano Anthony Smith e colleghi. Campa cavalluccio…

Dall’Economist
Recensisce i risultati CLOUD meglio di me. Ma sembra credere che nei modelli climatici solo l’ammoniaca e l’acido solforico siano considerati nuclei di condensazione. Già, niente NOx sabbia polveri sale micro e non tanto micro organismi marini… (nella categoria molto meglio di me, vedi anche ConCERN trolling).

A proposito della correlazione tra l’ENSO e le guerre civili (vedi post di ieri), nota che non serve a prevedere le reazioni a un aumento graduale e prolungato della temperatura e aggiunge un paio di deduzioni

piuttosto deprimenti. Una sui limiti dell’adattamento. In un mondo che fa poco per mitigare i cambiamenti climatici, l’accento viene messo sempre di più sulla capacità di adattarsi. Ma se il Nino, presente in tutta la nostra storia, ha tuttora effetti significativi sull’agricoltura e sulla violenza, significa che i paesi poveri faticano ad adattarsi ai cambiamenti climatici abituali, e rende difficile sperare che reagiscano facilmente a quelli nuovi. Diventare più ricchi aiuta, ma i paesi più colpiti sono proprio quelli che stentano a svilupparsi.
E poi c’è una lettura pessimista. La gente si adatta davvero alle sfide del clima – facendosi la guerra.