Data journalism

In attesa delle primarie americane del 15 marzo e di sapere se il partito repubblicano riuscirà a liberarsi dal Donald, l’Economist dedica un lungo articolo alle scienze politiche in USA, in particolare all’influenza di “The Party Decides: Presidential Nominations Before and After Reform” e alla diffusione di un data journalism che consiste nel riferire le interpretazioni/proiezioni di accademici. Spiegherebbe come mai gli statistici – e pionieri del “data journalism” come Nat Silver – che avevano previsto l’esito delle elezioni dal 2000 in poi, hanno sbagliato le previsioni degli ultimi mesi.

Conclusione forse un po’ ovvia: in assenza di leggi della psico-storia, direbbe Asimov, i modelli statistici non simulano le scelte degli elettori.

(Così come quelli economici postulano comportamenti razionali, e non le scelte dei piccoli investitori. D’altronde questi sembrano in balia di consulenti finanziari, in USA 650 mila sono registrati in una sorta di albo nazionale. Pare esserci una proporzione notevole di corrotti o incompetenti, raramente denunciati dalle loro vittime. Ritrovano quasi sempre un lavoro, stando a una ricerca intitolata “The Market for Financial Adviser Misconduct“…)

Jacob Weisberg di Slate ricorda invece un romanzo del 1935, It Can’t Happen Here di Sinclair Lewis,

a novel today more referred to than read, which imagined fascism coming to the U.S. The movement’s leader is Buzz Windrip, a populist demagogue who promises “to make America a proud, rich land again,” punish nations that defy him, and raise wages very high while keeping prices very low.

Paragonare Trump ai demagoghi di altri paesi è un errore, incarna un autoritarismo locale “terrificante”:

He bullies those who resist him in the contemporary vernacular of American celebrity culture.This is why those arguing that Trump’s policies are more moderate than those of his rivals Ted Cruz or Marco Rubio miss the point. Trump’s authoritarianism is an amalgam not of left and right but of wacko left and wacko right…

Autoritarismo è un termine ricorrente da quando gli opinionisti si sono ripresi dallo stupore – troppo tardi?

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Conclusione  forse un po’ ovvia anche in un paper di Nature Climate Change. Lucien Georgeson, Mark Maslin e altri geografi dell’UCL confrontano quanto hanno speso 10 mega-città (> 3 milioni di abitanti) nel 2014/2015 per adattarsi ai cambiamenti climatici:

Developing cities have higher proportional spend on health and agriculture, whereas developed cities have higher spend on energy and water. Spend per capita and percentage of GDPc comparisons more clearly show disparities between cities. Developing country cities spend half the proportion of GDPc and significantly less per capita, suggesting that adaptation spend is driven by wealth rather than the number of vulnerable people.

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Tamino elenca gli effetti del riscaldamento globale finora; l’instancabile Sou di Hot Whopper ha contato le teorie complottiste innescate dalla correzione delle temperature troposferiche RSS che ora i repubblicani non possono più usare per sostenere che il riscaldamento s’è fermato nel 1998.

4 commenti

  1. Donald: It’s freezing and snowing in New York – we need global warming!

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