Messaggi sentimentali e risultati spuri

Anche la rassegna della stampa scientifica è da montagne russe.
Ieri su Science,
– Martin Eisenrink rovinava la festa con “A romance gone bad: Valentine’s Day program examines biomedical researcher’s ignoble lies“, una recensione del documentario sulla love affair tra il chirurgo Paolo Macchiarini e Benita Alexander, la produttrice di un programma televisivo a lui dedicato;
– Daniel Clery rassicurava innamorati e non in “Don’t panic: The chance of this space-traveling sports car hitting Earth is just 6% in the next million years” e su Venere del 2,5%; nel frattempo le collisioni di satelliti e sonde con un detrito spaziale così grosso dovrebbero essere evitabili.
– Edwin Cartlidge allarmava il vicinato con “Mishandling of spent nuclear fuel in Russia may have caused radioactivity to spread across Europe“. Niente di drammatico ma tra settembre e ottobre una nube di rutenio 106 ha fatto scattare i rilevatori dalla “Norvegia alla Grecia e dall’Ucraina alla Svizzera”:

Now, scientists at the French Institute of Radioprotection and Nuclear Security (IRSN) in Paris say the isotope may have been released from the Mayak nuclear facility near Ozyorsk in southern Russia. IRSN argues that the leak could have taken place when Mayak technicians botched the fabrication of a highly radioactive component for a physics experiment at the Gran Sasso National Laboratory in L’Aquila, Italy.

Il governo russo nega.

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Oggi su Nature, un editoriale rimanda a una ricerca da San Valentino, sui messaggi sentimentali che i ricercatori inseriscono nei loro papers:

What could be more romantic than an analysis of the cooling power of a fridge? Answer: an analysis of the cooling power of a fridge that ends with the words: Will you marry me?

Da collegare a un paper sul “Comportamento di ritenzione del partner“. Sintesi: i messaggi falsamente affettuosi sono associati negativamente al valore dato al partner – stando a un questionario distribuito a 207 persone (!) – ma quando la dedizione al rapporto è poca, l’associazione è meno negativa. Giuro, è uscito ieri su Evolutionary Psychology.
Don’t jump to conclusions about climate change and civil conflict“, avverte un altro editoriale da far girare e discutere nelle Ong, secondo me. Parte dalla siccità in corso a Città del Capo e da quella nel sud del Brasile fino a due anni fa:

a study published last year of some 1,800 riots in sub-Saharan Africa over 20 years concluded that drought can indeed be a powerful contributor to civil disorder (C. Almer et al. J. Environ. Econ. Manage. http://doi.org/ckdj; 2017).

Such retrospective analyses raise two questions related to cause and effect: did climate change alter the weather? And did the change in the weather provoke the conflict? Only a solid yes to both can justify bold statements that global warming promotes violence — and establishing this answer is difficult, if not impossible, in many cases.

Gli attribution studies che ho visto stimano percentuali di incidenza con grandi margini di incertezza e nessun “solid yes”, ma leggo poche riviste specializzate.
Siccità e ondate di caldo prolungate causano carestie e migrazioni che, in assenza di interventi pubblici, causano conflitti “a bassa intensità” come proteste contro l’aumento dei prezzi, “a media intensità” come nel caso del land-grabbing e via così.  Le causano anche una riforma agraria inesistente o predatoria, l’assenza di piani e riserve per le emergenze ecc.
Da un lato, è come per la diffusione del virus Zika: è difficile stimare il contributo dei comportamenti umani, quanto incidono tradizioni e cultura, la solidarietà di gruppo, le guerre civili già in corso, la presenza di nuovi mezzi di comunicazione ecc. Dall’altro, nei paesi senza enti di ricerca, la ricerca la fanno gli occidentali:

efforts to find links between climate and social conflict are hampered by a severe sampling bias, including a statistically and politically dubious focus on mainly African countries formerly under British colonial rule.

The study, published in Nature Climate Change, states what critics have long suspected: conclusions that climate change is triggering violent conflict cannot be generalized, and are hard to substantiate even in individual cases (C. Adams et al. Nature Clim. Change http://doi.org/ckfw; 2018).

Courtland Adams et al. fanno una meta-analisi di 124 pubblicazioni (il paper è a pagamento – i “materiali supplementari” no). In sintesi, dicono che siccome i cambiamenti climatici non sono mai l’unica causa di un conflitto, l’evidenza del loro impatto è “empiricamente debole”, non si può generalizzarla per dedurne quali sono paesi a rischio di conflitto indotto dai cambiamenti climatici perché viene unicamente dai paesi dove il conflitto e i cambiamenti ci sono già.
Cito ancora dall’editoriale:

There is a political implication to this sampling bias, too. To search for climate–conflict links in places where violent struggle is taking place, or has only recently ended — and to pursue such research with a geographical bias towards a few, relatively accessible regions in Africa — threatens to stigmatize troubled countries as being prone to even more instability in the future. With a view to social justice in science, this would be grossly undesirable. And it is a flawed approach to answering important questions about the socioeconomic and political conditions in which climate-related conflict is likely to emerge. Instead, scientists must consider whether peaceful responses to climate change are the norm in most countries.

A me sembra un’ovvietà. Si cercano le cause di un fenomeno dove si manifesta, mica dov’è assente. Il predicozzo di Nature vale per tante discipline. Basti pensare all’epidemiologia e alle vaccinazioni, o all’ecologia e allo sfruttamento delle risorse naturali. E non sono gli scienziati a decidere le ricerche da fare nella prospettiva o meno di una “giustizia sociale”, ma i governi e le fondazioni che la finanziano. Dubito che ritengano prioritario studiare le soluzioni già note e in atto, o che queste non siano usate per stigmatizzare un altro paese…
Da collegare al paper di Jeff Colgan su cambiamenti climatici e proteste contro le basi militari americane. In Groenlandia sono state chiuse nel 1967 ma i ghiacci stanno fondendo:

Climate change is now poised to remobilize these pollutants into the surface water, creating a risk for human settlements. The case could be the proverbial canary in the coal mine for future politics surrounding overseas military bases.

Com. stampa

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Rimmel del giovedì

Hortensio ha scoperto che l’altro ieri in Senato si sono ritrovati per opinare sulla FuF

Assistevano ai loro monologhi il sempre credulo e plaudente Claudio Pace, introdotto dal senatore per conto di varie destre Carlo Giovanardi noto per le bufale su qualunque tema. Erano presenti, forse, il deputato portavoce del M5* Filippo “sono un bischero” Gallinella celebre per aver sostenuto che il grano saraceno della “pasta italiana” era importato dalla Turchia e altre cavolate, e la sua collega del PD Mariastella Bianchi.
Prima dell’incontro, in sala c’era anche Roy Virgilio “a disposizione per qualche chiacchiera amichevole” su dove son finiti i soldi che aveva raccolto per “La Fusione Sociale: Azionariato Popolare!

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Epistemologi cercansi. Chi vuol fare le pulci ad assurdità sulla scienza, prima che facciano danni?