Greta e i guardoni

Da settimane lubrici baciapile, antiche macchiette e comici involontari sono ossessionati da una sedicenne e non riescono a tenerselo per sé. Nei mezzi di disinformazione raccontano senza pudore cosa farebbero, se potessero, alla giovane che invece di ascoltarne le fantasie anche splatter in religioso e umile silenzio, preferisce studiare, scrivere, parlare con i coetanei e con scienziati, e rivolgersi a assemblee nazionali e internazionali.

Peggio ancora, parla in inglese dagli schermi di tutto il mondo con poche frasi pacate e logiche in mezzo ai drammi e alle insensatezze quotidiane. Lei è celebre, loro no, non lo tollerano. Cercano di diventarlo urlandone il nome e contribuendo così a renderlo più famoso. Primo motivo di gratitudine.

Spronati dal duo BattagliaPennetta e dal trio Il FoglioIl GiornaleLibero, incoraggiati da un alt.uff. delle FF.AA. – al quale va riconosciuto il coraggio di aver lanciato insulti per primo – si esibiscono in tornei di ignoranza, menzogne, ipocrisia, egoismi, complottismi, intolleranza, volgarità, misoginia…

Espongono al ludibrio dei rari spettatori tutto quello che il movimento per il futuro rimprovera ai governanti e ai grandi inquinatori che li finanziano per esserne a loro volta finanziati molto più generosamente. Ne sono la caricatura un po’ troppo oscena per i miei gusti (e per quelli di Tony Scalari di Valigia blu), però meritata.
Secondo motivo di gratitudine e Ramen.

Letture in tema
Myles Allen che dirige il Climate Research Programme dell’università di Oxford, critica giustamente uno degli slogan del movimento: “abbiamo 12 anni per agire, dice l’IPCC”, altrimenti nel 2030 ci sarà una catastrofe. Bisogna agire adesso, scrive da leading author del rapporto IPCC +1,5 °C, e dopo aver spiegato perché ai ragazzi inglesi, aggiunge:

  • Climate change is not so much an emergency as a festering injustice. Your ancestors did not end slavery by declaring an emergency and dreaming up artificial boundaries on “tolerable” slave numbers. They called it out for what it was: a spectacularly profitable industry, the basis of much prosperity at the time, founded on a fundamental injustice. It’s time to do the same on climate change. (The Conversation)

Su Science Advances, Thomas Lovejoy di Yale e parecchi suoi ex studenti (mi sembra) propongono un Global Deal for Nature che, abbinato all’Accordo di Parigi, potrebbe evitare un cambiamento climatico catastrofico, conservare le specie a rischio e garantire servizi ecosistemici indispensabili:

  • with existing technologies and large-scale adoption of common conservation approaches (e.g., protected areas, renewable energy, sustainable fisheries management, and regenerative agriculture), it would be possible to advance a desired future of multiple economic and environmental objectives (including 50% of each biome intact, with the exception of temperate grasslands). […] The success of proposals to boost food production while protecting biodiversity will likely depend on our success in addressing human population growth, however, and our willingness to marshal financial resources accordingly.

A proposito di risorse finanziarie, l’Economist pubblica un editoriale e un articolo sulle ricerche insufficienti – le Big Agrobiotech aspettano che le faccia lo Stato – per rendere le coltivazioni “a prova di futuro”, di un aumento delle “malattie botaniche” associate al caldo e all’umidità “anche nelle regioni temperate”. I paesi ricchi devono finanziarle nel rispetto delle leggi contro la bio-pirateria:

  • One barrier to funding and recognition is official dogma. America’s National Science Foundation rejects grant requests that include the words “climate change”, applicants say, because the administration and its allies have decided it does not exist.

Quanto all’Europa, ha un atteggiamento reazionario verso l’ingegneria genetica, ma dovrà rassegnarsi.

L’Economist intende “a prova di futuro” nelle zone temperate per le quali le piante alimentari sono state selezionate e ottimizzate. Nessuno s’immagina che piante tropicali evolvano all’improvviso una resistenza a temperature più elevate di 2 °C, men che meno a tifoni, alluvioni e siccità più intensi e frequenti. Quindi i paesi ricchi dovranno rispettare gli accordi e condividere i profitti della biodiversità, invece di rubarla come hanno fatto finora:

  • Poor, plant rich countries, are in any case those whose farmers are most likely to be hurt by global warming. It would be ironic if that were made worse because genes from those countries’ plants were unavailable to future-proof the world’s crops.

Ingiustizia fondamentale: “nei paesi poveri, ricchi di piante” non ci sono state attività rese “spettacolarmente redditizie” da emissioni secolari di gas serra, e da anni in Sicilia si coltivano manghi, papaie, avocado…

Alla Sant’Anna di Pisa, il gruppo di Enrico Pé fa ricerche per e con i contadini più poveri. Per esempio, nello stato di Morelos, in Messico, sulle varietà tradizionali di mais “abbandonate” negli ultimi cinquant’anni:

  • multiple interconnected changes in maize cultivation technologies, as well as in maize markets, other crop markets, agricultural and land policies, cultural preferences, urbanization and climate change, have created an unfavorable environment for the conservation of maize landraces.

I contadini spiegano i motivi dell’abbandono nella tabella 4. (Chissà com’era il Pepitilla “Lengua de Pájaro”.)

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GWAS a gogo
Se quando leggete “scoperti i geni del successo con Genome Wide Association Studies” tirate fuori la pistola ad acqua, guardate che belle associazioni SboGwa estrae dalla biobank britannica. Se nella frutta secca sono comprese noci, mandorle, cacahouètes, pistacchi e fichi (occasionalmente), ho gli alleli giusti

9 commenti

  1. Ma per via invece del concerto alimentato a biciclette nulla da segnalare? 2 conti e 4 risate perché negarle?
    L’ambientalismo di facciata non è catalogabile tra le offese?

  2. Il Villaggio per la Terra, 5 giorni per la sostenibilità.
    tutte le sere sono in programma concerti.
    MUUUAHHHHHHAHAHAHHH

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