Fate passare per favore (bis)

Due anni fa, segnalavo un paper di Andrea Manca, Franca Deriu e colleghi dell’università di Sassari e di Cagliari che quantificava il successo delle riviste predone in alcune scienze biomed. L’università di Sassari ha organizzato per i ricercatori un seminario su come evitare le truffe e forse anche Cagliari perché da OMICS, l’oligopolista del settore, hanno smesso di comprare articoli.

Però proseguono gli acquisti di partecipazioni a conferenze truffaldine e relativa pubblicazione di abstract e poster, in particolare da parte dottorandi stranieri. Non importa perché le pagano di tasca loro?

Fuori dalla Sardegna, noi contribuenti continuiamo a finanziare tranquillamente il truffatore OMICS, grazie soprattutto all’università di Firenze. Con ben 60 “contributors, editors and speakers“, ha superato finalmente quella di Bari. D’altronde, il prof. Amedei è membro del comitato editoriale di oltre 40 riviste predone.

Boycott Elsevier as well
Questa volta l’articolo da far passare è quello di Diana Kwon per The Scientist. Cita un altro paper di Andrea Manca, Franca Deriu et al. e un loro commento sul Lancet nel 2017. Avevano trovato articoli di riviste malfamate su PubMed, e chiedevano che per l’inclusione delle riviste, usasse gli stessi criteri di PubMed Central e Medline (inclusi in PubMed), Scopus, un data-base di Elsevier, e del Directory of Open Access Journals – gli ultimi due non solo per il bio-med.

Dal 2017 non è successo niente. Stando a un’analisi uscita in gennaio, le “infiltrazioni” su PubMed non sono così numerose da essere preoccupanti – sempre troppe, anche perché viene usato dai giornalisti, dai pazienti e dai loro conoscenti. Per me (usavo Scopus, ma non per il biomed) la cosa sorprendente è che la fidata Catherine Smith ne ha presentata una alla conferenza dell’Associazione delle biblioteche mediche, scrive Diana Kwon, nella quale

  • PubMed aveva addirittura meno articoli di editori predoni di altre risorse digitali come Scopus e Google Scholar.

Su Google Scholar c’è di tutto, ma almeno è gratis. Per usare Scopus, bisogna pagare un abbonamento. Prima di farlo, i bibliotecari delle università dovrebbero leggere il “case study” di cinque riviste.

  • Questa breve nota indica che Scopus indicizza articoli-pattume e inquina il proprio data-base.

O forse basta sapere che la rivista NeuroQuantology è indicizzata da Scopus come ha appena scoperto Smut Clyde? (Se non l’avete mai letta, potreste iniziare da “Carl G. Jung’s Synchronicity and Quantum Entanglement: Schrödinger’s Cat ‘Wanders’ Between Chromosomes“:

  • An original concept is proposed, stating that biological molecules involved in cell division during mitosis and meiosis, particularly DNA may be considered material carriers of consciousness. This assumption may be formulated on the basis of phenomenology of Jung’s analytical psychology.

Ovvero quasi tutti i procarioti e tutti gli eucarioti hanno una coscienza. O potreste iniziare dalle fantasie sessuali di questo signore.

*

In tema, su Science di eri Alan Chambers racconta come si è fatto accalappiare dal un predone e Beryl Benderly presenta i risultati di un sondaggio pubblicati su BioRxiv sui baroni che fanno fare la peer-review a un sottoposto e la firmano loro:

  • Il 79% dei postdoc e il 57% dei dottorandi che hanno risposto hanno detto di aver contribuito idee e/o testo ai rapporti di revisione che i loro superiori erano stati invitati a scrivere… 

I cosiddetti “co-revisori” che normalmente dovrebbero firmare come co-autori. Circa metà avevano fatto tutto da soli, senza alcun intervento del Principal Investigator, i “revisori fantasma”.

  • Ancora più impressionante, il 46% dei co-revisori sapevano che il prodotto finito andava alla rivista con soltanto il nome del PI. 

*

Quale Piano S?
Continua la polemica sulla “Guidance on the Implementation of Plan S“, il piano preparato dal malfamato Frontiers per la Commissione europea, che dal 2020 prevede la pubblicazione su riviste in open access. Per il momento, i fondatori e sostenitori della cOAlition S interpretano le linee guida ciascuno a modo suo.

Anche nell’oligopolio editoriale, le idee variano. Il gruppo Nature-Springer propone l’alternativa già in vigore in USA anche se poco sfruttata: sei mesi dopo la pubblicazione, gli enti di ricerca e gli autori possono archiviare gli articoli sul proprio sito. Poi c’è il problema delle riviste ibride, quasi tutte ormai, sulle quali è possibile pubblicare anche in open access. Perché verrebbero escluse?

Non ho capito cosa accadrà ai preprints e ai working papers. Sono in open access molto prima di uscire su una rivista, per esempio “A walk on the wild side” è uscito in marzo, ma ne avevo scritto due anni prima perché la Sant’Anna di Pisa l’aveva messo sul suo sito.

Ai ricercatori che si chiedono a quale rivista sottoporre un articolo, consiglio gli aggiornamenti di Richard Poynder.