Sui PNAS, Nathan Pelletier e Peter Tyedmers pubblicano un modello di previsione per “i potenziali costi ambientali globali della produzione di bestiame 2000-2050“. Lo riassumo in attesa della sua falsificazione, in senso popperiano s’intende, da parte di C. Costa, non appena avrà falsificato i modelli idrici usciti giovedì su Nature.
I due prendono il contributo (emissioni di gas serra e di inquinanti di acqua e suoli) degli allevamenti mondiali nel 2000 e quello stimato per il 2050 al cambiamento climatico, alla “mobilitazione” di azoto reattivo e al consumo di biomassa vegetale.
Calcolano che nel 2050 per produrre 465 milioni di tonnellate di carne e oltre un miliardo di tonn. di latte, rispetto a 229 e 580 milioni nel 2000, servirà quasi tutto “lo spazio operativo sicuro” dell’umanità. Circa il 70-80% sarà dedicato ad assorbirne l’inquinamento.
In alcuni degli scenari che usano per le varie scelte alimentari, lo spazio sicuro sarebbe abbondantemente superato. In quelli più ottimisti, con una riduzione del 40% dei consumi di carne invece che del 19% per esempio, i livelli di azoto che nel 2000 erano il 125% di quelli sostenibili passano al 294%, il contributo alle emissioni di gas serra aumenta (grazie C. Costa) dal 52% al 70%, la biomassa necessaria dal 72% all’88%.
Tenuto conto delle incertezze legate alle “condizioni al contorno” della sostenibilità e dei margini d’errore, l’impatto è comunque tale da suggerire “politiche ambientali che frenino la crescita del settore”.
Nathan Pelletier e Peter Tyedmers sono più cauti di altri sui benefici per il clima di una dieta vegetariana. D’altronde se è vero che si diffonde in alcuni paesi occidentali, per motivi di salute in particolare, ogni americano mangia 8 kg di carne in più all’anno rispetto al 1970 e nei paesi che escono dalla povertà i consumi aumentano più velocemente della popolazione e del reddito. Converrà far crescere bistecche e formaggi in un brodo di coltura, come le cellule.