Forse per svegliare i delegati che a Nagoya dovrebbero impegnarsi a rallentare il calo della biodiversità, Science anticipa on line due articoli in tema.
Henrique Pereira e altri 22 autori analizzano gli scenari quantitativi sulle estinzioni delle specie terrestri e acquatiche, e paragonano le proiezioni dei modelli con le osservazioni sul campo. La gamma delle probabilità, scrivono, sottovaluta quella dei cambiamenti avvenuti sia in negativo che in positivo, quindi serve ridurre d’urgenza le incertezze. Gli autori sperano nell’imminente fondazione dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem (ISPBE)
un’opportunità per avviare un grande sforzo teso a migliorare e valutare gli scenari della biodiversità. Modelli migliori rafforzeranno il ruolo degli scenari nel collaudare gli interventi per minimizzare l’impatto delle attività umane e massimizzare i servizi degli ecosistemi forniti dalla biodiversità. Tali scenari… contribuiranno a raggiungere gli obiettivi stabiliti nel nuovo piano strategico della Convenzione sulla diversità biologica.
Se si sostituisce “biodiversità” con “clima”, è il refrain che ha portato i governi a fondare l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). I biologi ne invidiano il successo, si vede che non leggono Climate Monitor.
Con oltre 150 firme di superstar (tipo Luigi Boitani e Carlo Rondinini per intenderci), mi sembra che il secondo articolo batta ogni record per la sua disciplina. Gli autori hanno usato quarant’anni di dati su 25,780 specie a rischio inserite nella Red List per valutare la situazione dei vertebrati:
Un quinto delle specie sono classificate come “minacciate” e il loro numero va crescendo: in media, ogni anno 52 specie di mammiferi, uccelli e anfibi passano in una categoria più vicina all’estinzione.
Il declino è dovuto principalmente all’espansione dell’agricoltura, alla deforestazione, al sovrasfruttamento con relativo inquinamento degli ecosistemi e all’invasione di specie aliene. Ma ci sono eccezioni, e non sembrano correlate né con i soldi spesi né con la creazione di riserve:
ci sono casi di notevoli successi, ad illustrare che un’azione strategica e mirata di conservazione può ridurre il tasso di perdita rispetto a quello previsto in assenza di intervento. Tuttavia gli interventi attuali non sono commisurati alla minaccia di estinzione e per combatterla dovranno aumentare sostanzialmente. Anche quando si riprendono, molte specie restano dipendenti da sforzi di conservazione che richiedono investimenti a lungo termine. Per esempio si protegge da 30 anni il Leontopithecus rosalia, da 70 anni la Grus americana e da 115 anni il Ceratotherium simum.
Complimenti al Sudafrica che ha salvato il rinoceronte bianco C. simum simum. Per quello settentrionale C. simum cottoni è troppo tardi. Nel 1970 in natura ce n’erano 500 esemplari, oggi meno di una decina.