Riconoscente


Di Ilaria Capua, scriviamo a scadenza annuale perché le appioppano un’altra medaglia al valor veterinario conquistata sul campo o in provetta, o un premio per i servizi resi alla comunità di pennuti e umani.

Questa volta abbiamo una sorpresa. Ha scritto una breve autobiografia che nel giro di una pagina fa scoppiare dal ridere, infuriare, tremare per lei di nuovo su un aereo per rischiare la pelle, la carriera, di lasciare il marito vedovo, la figlia orfana e la sua équipe acefala.

Sulla carta “il funzionario pubblico”, capo di un laboratorio di provincia e di riferimento per gli enti internazionali, comandante in una guerra senza fine, chiamato da un quartier generale all’altro senza nemmeno un giorno di preavviso per andare dal parrucchiere, è così com’è nella vita. Trasparente, onesta, tutti i sensi all’erta perché la terra è un posto magnifico nonostante tutto. I sentimenti in bella vista e facili da ferire, un senso morale a prova di bomba. Sostiene di non essere Superwoman, i suoi colleghi sanno che è vero il contrario e certi boss locali ne sono sommamente indispettiti.

Tiene famiglia (adorante), cuce il vestitino di Carnevale alla bambina, cucina una spaghettata nel bush sudafricano e le riesce perché è organizzata, lungimirante e in buona salute. Aveva 33 anni e quattro assistenti in croce quando creò DIVA (Differentiating Vaccinated from Infected Animals), il sistema che consente di distinguere gli anticorpi dei polli vaccinati da quelli dei polli infetti e quindi di vaccinarli invece di sterminarli tutti a ogni ritorno del virus.

I suoi “ragazzi” dormivano a turno sulla branda, le colture con la proteina verde fluorescente – oggetto di due pagine di divulgazione a base di papaveri rossi e margherite bianche, il significato di quel tricolore non si dimentica più – non chiudono alle cinque di sera. E un convegno internazionale non cambia data per aspettare che illustri sconosciuti finiscano di collaudare la loro prima presentazione. Erano sfiniti, con le ginocchia tremanti, la sala era colma di celebrità. Sapete com’è andata?

«Abbiamo fatto un F-I-G-U-R-O-N-E!»

Subito adottato dai paesi ricchi, DIVA richiede personale specializzato che quelli poveri non avevano. L’autrice lo sta formando da allora, nel frattempo ha fatto di più. Si deve alla sua indignazione e temerarietà se oggi le sequenze genetiche dei virus sono depositate in banche-dati accessibili a tutti e non solo all’élite che magari se le tiene nel cassetto fino alla pubblicazione sulla rivista prestigiosa. O in attesa del brevetto e relativi finanziamenti per la start-up. O presa da cose più urgenti di un’epidemia dove «le uniche proteine animali che i bambini nati con l’Hiv possono permettersi sono le uova», diceva Ilaria. La sola a citare questo argomento quando il virus comparve per la prima volta nell’Africa subsahariana. D’altronde nessuno degli altri esperti era mamma da poco.

Il libro è dedicato a una scienziata della Commissione europea che ha colto al volo la portata di DIVA. Ringrazia anche la presidente dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nella battaglia per il libero accesso alle sequenze, noi tifosi dell’Ilaria’s Fan Club abbiamo temuto che Margaret Chan stritolasse la rompiscatole che le rovinava il debutto da presidente per rivelare l’ipocrisia dell’aggettivo “mondiale”. Invece l’ha chiamata al telefono e l’ha ascoltata.

Il risultato non è nel libro, ma sul sito della Fao (googlare “one world one health“). In Italia invece, Ilaria deve tuttora lottare contro certi amministratori pubblici che non tollerano una donna più autorevole di loro. Per toglierle la parola, sono capaci di dirle in pubblico che bella com’è dovrebbe fare un altro mestiere. Servono rinforzi.

Avviso alla tifoseria: Ilaria sarà a Trieste dal 28 sera per il Salone europeo dell’innovazione e della ricerca. Guardare il programma su triestenext.it e portare gli striscioni.
Copyright Il Sole-24 Ore, link aggiunti e refusi tolti.

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