Esercizi di stile

I Fridays for Future hanno fatto crescere la copertura mediatica del riscaldamento globale e delle sue conseguenze, e ne stanno cambiando anche il linguaggio. La settimana scorsa, il Guardian ha pubblicato i termini consigliati a giornalisti e collaboratori: meglio “crisi climatica” che “cambiamento climatico” per esempio.

Digressione di storia novecentesca

Sta diventando una mania, chi c’era salti pure.
Gli scienziati usano global warming – riscaldamento (lento) a proposito delle temperature, e climate change per fenomeni vari: dall’innalzamento del livello del mare allo spostamento dei termoclini di piante e animali. A volte climate change e global warming sono intercambiabili, per esempio i ghiacciai fondono perché fa più caldo. A volte no, per esempio le emissioni di CO2 acidificano gli oceani senza scaldarli.

Spesso i negaioli accusano gli scienziati di aver deciso di parlare di cambiamento climatico perché non c’è alcun consenso sul riscaldamento globale e sulle sue cause. E visto che “il clima è sempre cambiato”, le emissioni non c’entrano. Un consulente in comunicazione del partito repubblicano, Frank Luntz, aveva provato entrambi i termini su un “focus group”. In un’analisi del 2002 ha scritto (p. 142)

  • Per noi [repubblicani] è ora di parlare di “climate change” invece di global warming
  • 1. “Climate change’’ fa meno paura di “global warming”. Come ha notato un partecipante al focus group, “climate change suona come andare da Pittsburgh to Fort Lauderdale” [un viaggio facile]. Mentre global warming ha connotazioni catastrofiche, climate change suggerisce un problema più controllabile e meno coinvolgente emotivamente. 

Il neo-eletto Bush non era un gran comunicatore. Appena insediato alla Casa Bianca aveva annunciato che avrebbe abrogato il decreto esecutivo con il quale Clinton aveva abbassato da 50 a 10 ppm il livello massimo di arsenico nell’acqua potabile, come proposto dall’EPA e dagli NIH.  (Ha dovuto rinunciarci.)

“Il peggior autogol nelle pubbliche relazioni commesso presidente Bush nel suo primo anno di governo”, secondo Luntz, “la percezione è che stia attivamente aggiungendo arsenico nell’acqua”. Bisogna invece ripetere che la scienza è “robusta”, il limite di 50 ppm è quello giusto.

Fine digressione.

L’Economist è più conservatore del Guardian, forse consapevole della propria influenza su decision-makers politici e finanziari ai quali conviene risparmiare le emozioni. Il suo Style Manual sconsiglia le parole trendy e le iperboli; da quello che so, i redattori le sopprimono senza pietà salvo citazione o gioco di parole.
Eppure questa settimana “climate crisis” ricorre nell’editoriale “Global warming and war” e nella lunga rassegna che occupa tutta la sezione internazionale “Climate change and warfare”. Forma e sostanza sono collegate esattamente come le crisi. Nei paesi del Sahel, la crisi climatica ne aggrava altre: scontri armati, migrazioni e tutte quelle del sottosviluppo.

In “Una guida shakespeariana a come le aziende affrontano il cambiamento climatico. The Seven Ages of Climate Man” dell’economista che si firma Schumpeter e sembra ammirare molto Greta Thunberg, le iperboli si sprecano. Il tema è la crisi di fiducia suscitata dai piani di sviluppo di 210 multinazionali, con un fatturato totale di oltre 6 mila miliardi di dollari, fra gli investitori istituzionali (per es. i fondi pensione), le banche centrali, i consumatori e i dipendenti.

La guida classifica le “aziende”  – da Exxon Mobil a Walmart passando da Daimler e Tesla, Big Tech e General Electric – in base alle spese per ridurre le emissioni dichiarate in bilancio. “Con pile di licenza poetica”, la classifica corrisponde alle sette età dell’uomo nel monologo di Jacques in Come vi piace.

(Trovo indimenticabile “l’industria dei combustibili fossili” descritta come “l’infante che miagola e vomita nelle braccia della nutrice”.)

Non previsti da Shakespeare, “i governi possono fare la differenza maggiore tassando più ampiamente le emissioni di carbonio.” Quanto alle aziende, devono scegliere se far la parte dell’eroe e del malvagio. Nel secondo caso, la loro ultima scena sarà

  • la seconda infanzia, il mero oblio, senza denti, senz’occhi o gusto, senza niente.

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O’s digest

Su Nature, un paper di Lukas Jonker et al. documenta i cambiamenti nella vita dei foraminiferi negli ultimi due secoli comparando le analisi dei sedimenti con osservazioni e campioni “vivi” dal 1978 in poi. Nell’85% delle popolazioni, la composizione, l’abbondanza e la distribuzione negli oceani sono dettate dalla temperatura, una conferma che

  • le comunità dell’Antropocene di un gruppo globalmente distribuito di zooplancton differiscono dal proprio stato preindustriale indisturbato.

“L’impronta del riscaldamento globale” è ovvia, scrivono, e i foraminiferi ci mettono più tempo per adattarsi al caldo di quanto si pensava. Il ritardo

  • potrebbe essere particolarmente esplicita a livello delle comunità, dato il tempo necessario per stabilire nuove reti di interazione. A sua volta, questo ha effetti potenzialmente grandi sul funzionamento dell’ecosistema e sui servizi che gli ecosistemi marini rendono alla società.

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Nicola Nosengo riassume le accuse della Procura di Teramo nel processo contro il presidente dell’INFN Fernando Ferroni, il direttore dei laboratori Stefano Ragazzi e il responsabile dei servizi ambientali Raffaele Adinolfi Falcon. Nel 2006, non sarebbe stata completata la messa in sicurezza – decisa dal governo dopo una perdita del rilevatore Borexino – che doveva garantire che le vasche con sostanze tossiche fossero distanti 200 metri dalle falde acquifere.

Nel 2016 e nel 2017 ci sono state altre perdite in due rilevatori. Non hanno inquinato le falde, ma Augusto De Sanctis ha denunciato di nuovo l’INFN per ottenere la rimozione di due rilevatori (già iniziata, sono arrivati “a fine vita”), e un finanziamento governativo di 170 milioni di euro per sostituire tutte le condutture d’acqua sotto il Gran Sasso.

Stranamente, sono accusati anche dirigenti delle aziende che gestiscono l’autostrada e l’acquedotto. De Sanctis un tempo era del WWF, oggi è presidente dell’Onlus di ornitologi locali e consulente dell’Istituto Abruzzese Aree Protette. Fino al 2016 era consulente dei deputati del Movimento 5 Stelle.

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Science pubblica un’inchiesta di Joshua Sokol sul contrabbando di ambra dal Myanmar alla Cina, dove viene comprata alla luce del sole da paleontologi e collezionisti cinesi perché l’ambra conserva quasi intatti reperti fossili, da qui la scoperta di stupendi dinosauri piumati. In Cina è illegale solo la vendita di quella “pura” usata per fare gioielli.

Bello saperne di più sull’evoluzione dei dinosauri, ma è “un campo etico minato”, dicono Sokol e parecchi paleontologi americani.  L’esercito birmano ha chiuso i depositi da quando il governo ha vietato l’esportazione dell’ambra con dentro fossili, considerati beni culturali nazionali. I depositi si trovano nelle montagne dei Kachin, un insieme di minoranze perseguitate e quasi altrettanto povere dei Rohyinga. Dei Kachin continuano a estrarre blocchi d’ambra nonostante rischino l’arresto.

Fra una tangente e l’altra fino alla città cinese più vicina, guadagnano una miseria. In compenso si arricchiscono militari e poliziotti corrotti, e soprattutto gli intermediari e i fornitori cinesi dei paleontologi.

2 commenti

    1. Grazie, maresciallo Stegano, ne avevo parlato quand’era uscito su carta. Ha trovato il credulone giusto!
      L’Economist cita Exxon Mobil come “l’infante che miagola e vomita nelle braccia della nutrice”, e il “posapiano (laggard) peggiore” perché ha pianificato un aumento del 25% delle estrazioni di petrolio e gas fra i 2017 e il 2025.

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