Serve il vostro aiuto (mini-ciclot)

Cari orecchietti di radio pop,
lunedì parlo di soldi, vostri e miei. Direttamente e indirettamente, le pubblicazioni scientifiche le paghiamo noi a un prezzo a volte delirante. L’appello per boicottare il delirio peggiore ha raccolto in pochi giorni 3 mila e rotte adesioni. In Italia pochissime. Se avete amici, parenti, conoscenti che usano i risultati della ricerca, in qualsiasi disciplina, potete avvisarli?

Ringrazio in anticipo e provo a spiegare la faccenda.
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Tim Gowers, vedi anche Polymath Projects

Le riviste scientifiche sono oltre 100 mila, per lo più di nicchia e pubblicate da università, società e accademie scientifiche. Quelle che “contano” sono le 14 mila censite dall’Institute for Scientific Information e quasi tutte in mano a un oligopolio dominato (1) da tre editori Elsevier, Springer e Wiley che si dividono il 42% del mercato e hanno margini di profitto del 36%.

Scrivere articoli e controllare la qualità di quelli altrui fa parte del lavoro per il quale un ricercatore è retribuito, non è a carico degli editori. Ma, dicono questi, sosteniamo costi enormi per la diffusione del prodotto, per la sua infrastruttura digitale.

Ma va? Se i costi sono davvero enormi, da dove salta fuori quel margine di profitto? E a cosa servono infrastrutture private quando esistono già quelle pubbliche, di società scientifiche e di enti di ricerca, finanziate dalla collettività?

Le pratiche commerciali del trio Elsevier, Springer & Wiley – per dirla con George Monbiot – fanno sembrare Rupert Murdoch un socialista: alle biblioteche universitarie impongono abbonamenti a “pacchetti” di riviste. Alcune confidenziali nonché trimestrali che costano 18.710 euro all’anno. Copyright dell’editore per vent’anni e guai a infrangerlo (a meno che il paper non rientri fra quelli ospitabili da arxiv.org).

Da due anni l’Istituto americano di Sanità, l’ente di ricerca più ricco del mondo, finanzia solo ricercatori che entro 12 mesi da una loro pubblicazione la mettono in un archivio aperto al pubblico. Elsevier, dalla reputazione non proprio immacolata, finanzia invece la lobby – mobilitata dal 2007 – che vuol far votare al Congresso americano una legge proposta da un repubblicano reazionario. Se passa, per leggere i risultati di una ricerca pagata dai cittadini – pubblicazione compresa – i cittadini dovranno pagare dai 16 ai 30 dollari.

I cittadini di qualunque paese: se una ricerca è firmata, per esempio, da Elisabetta Vignati del Centro europeo di Ispra, lo stipendio glielo paghiamo noi dell’Unione europea, mica degli Stati Uniti…

La situazione non è piaciuta al matematico Timothy Gowers dell’università di Cambridge, che l’ha descritta con altri particolari sul proprio blog. E che mentre la descriveva si sentiva sempre di più come i francesi nella canzone di Enzo Jannacci.

Mi vien in mente che potrebbe essere d’aiuto se ci fosse un sito da qualche parte, dove i matematici che hanno deciso di non contribuire in alcun modo alle riviste Elsevier potessero mettere la propria firma. Credo che altra gente sarebbe incoraggiata a prendere posizione se vedesse che altri lo stanno già facendo… 

Il sito c’è, l’ha creato Tyler Neylon, un altro matematico. Si chiama The Cost of Knowledge e possono firmare anche i non matematici.

Aggiunta
Oltre ai ricercatori citati da Michael Nielsen, appoggia l’appello anche Ugo Hassandra Bardi per ora in inglese, vedi commento sotto.

(1) Si sta diffondendo il modello “open access” inaugurato dieci anni fa dalla Public Library of Science, i suoi successi e i suoi problemi saranno per un’altra volta. Ne frattempo c’è un sunto dello scontro tra i due modelli sull’Economist di oggi:

Dopo tutto, gli editori hanno bisogno degli accademici più di quanto gli accademici hanno bisogno degli editori. E i titolari di rendite di posizione (incumbents) spesso sembrano invulnerabili finché cadono all’improvviso. Attenti, quindi, alla primavera accademica.