David Penny elenca su PLoS Biology i malintesi suscitati dall’espressione “albero della vita” che Darwin aveva usato non per classificare gli organismi, ma come “analogia utile” per descrivere, nel corso dell’evoluzione, la competizione tra specie e gruppi di specie come
germogli che nel crescere danno luogo a nuovi germogli e questi, se vigorosi, si diramano e sovrastano da ogni lato tanti rami più deboli, così, per generazione credo sia avvenuto con il grande Albero della Vita, che riempie di rami morti e spezzati la crosta della terra, e ne copre la superficie con le sue belle e incessanti diramazioni. (trad. in prop.)
Non era tanto convinto. Rappresentava all’incirca la verità, però vent’anni prima di pubblicare l’Origine delle specie, annotava nei Quaderni
forse si dovrebbe chiamare corallo della vita, una base di rami morti; cosicché i passaggi non si possono vedere.
A conti fatti ci sono più alberi della vita nella Bibbia che nell’Origine delle specie, scrive Perry, anche perché Darwin voleva mostrare “la continuità tra popolazioni, subspecie, specie apparentate ecc.” Ma la continuità è stata subito interpretata con un’altra analogia preesistente: la Grande Catena dell’Essere servita a postulare una “gerarchia lineare con gli umani (principalmente maschi europei) in cima”.
Per evitare i trabocchetti delle metafore – e di visualizzare un cipresso o un baobab invece del cespuglio disegnato da Darwin – sarebbe meglio usare il termine tecnico “grafo aciclico connesso”? Un giorno ci provo, solo per vedere le facce in redazione.
Claudio DV chiede del disegno: è nel Notebook B.