Crisi di liquidità

L‘editoriale dell’Economist “The dry facts” inizia con una citazione che uso spesso anch’io

Thousands have lived without love; not one without water,” observed W.H. Auden. He omitted to add that, as with love, many people have a strong moral aversion to paying for the life-sustaining liquid.

e dopo aver elencato alcune soluzioni, conclude

The alternative is to prove Mark Twain right when he said: “Whiskey is for drinking; water is for fighting over.”

Liquidity crisis” riassume ricerche del MIT, World Resources Institute, Columbia University et al. sulla scarsità d’acqua pulita, aggravata dal riscaldamento globale e da un’agricoltura insostenibile. La crisi è nota dai tempi di Rio 1992, nel frattempo il costo delle soluzioni (sono tante, oltre alla gestione efficiente, prezzo “intelligente” e titoli di proprietà per i diritti di estrazione, favorite dall’Economist), aumenta insieme all’inquinamento, agli sprechi e alla popolazione mondiale:

Globally, spending on infrastructure faces a huge funding shortfall. A hole of $26 trillion will open up between 2010 e 2030, estimates the World Economic Forum.

Un buco innanzitutto nei paesi poveri dove la rete idrica è ancora da costruire, ma quella di Chicago è tuttora quella in legno costruita ai primi dell’Ottocento. L’Economist vorrebbe che l’accesso all’acqua fosse una priorità alla COP22 di Marrakech, invece temo che lo sarà in termini di centrali idroelettriche, che nei paesi poveri spesso aggravano altre iniquità come dimostra l’articolo sulle dighe previste in Amazzonia. Morale:

With clever pricing, clearer ownership and a bit of co-operation, water scarcity can be alleviated. If humanity fails to act, it will get just deserts.

Il modello sarebbe l’Australia, che è una singola nazione. Ma dal Medioriente all’Africa susahariana passando dagli ex “Stan” sovietici o dagli stati in USA, oltre all’acqua manca la cooperazione.

fonte

Sempre in previsione della COP22, l’economista Nicholas Stern teme che i costi del riscaldamento globale siano sottovalutati.

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Altre crisi

The watchers on the web” – da collegare a “Lost on the splinternet” – si occupa del processo intentato da Fazlul Sarkar contro PubPeer per ottenere il nome dei whistle-blowers che ne hanno elencato le falsificazioni su PubPeer (l’Economist non sa o non vuole dire se Clare Francis è un uomo o una donna?). Nel frattempo un’indagine della Wayne University ha portato alla ritrattazione di 18 dei suoi paper e nonostante sia avvenuto dopo l’inizio del processo, il giudice ha autorizzato PubPeer a usarlo per la sua difesa il 4 novembre scorso. La sentenza dovrebbe arrivare entro la prossima settimana. Rif. Retraction Watch per i particolari.

Secondo me, il processo non riguarda solo la scienza ma in generale la protezione di chi denuncia malefatte dalle ritorsioni dei malfattori. Nell’era post-verità sta erodendosi a vista d’occhio anche nelle democrazie e i governi USA hanno dato il cattivo esempio per primi.

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A volte “metterci la faccia” conviene. Ben Goldacre lo ha fatto per anni da cronista denunciando gli abusi di ciarlatani e Big Pharma. All’università di Oxford dirige l’Evidence-Based Medicine Data Lab (1) – che ha già fatto risparmiare milioni al NHS identificando le prescrizioni di farmaci inutili o dannosi, e dove ha creato il motore di ricerca Trials Tracker disponibile da venerdì e open source.

Su F1000 Research, insieme ad Anna Powell-Smith ha pubblicato una prima analisi di trials conclusi, stando al data-base degli NIH. È in attesa di peer-review, ma fa parlare di sé non solo sull’Economist. Sintesi:

  • 45.2% of trials conducted by major sponsors during the last decade are missing results.
  • Since January 2006, major trial sponsors completed 25,927 eligible trials and haven’t published results for 11,714 of them.
  • One trial sponsor has published no results at all for any of the 35 trials it has run in the last 10 years: Ranbaxy Laboratories Limited, a multinational pharmaceutical company with headquarters in India.
  • One trial sponsor has published results for all of the 96 trials it has run in the last 10 years: Shire, a multinational pharmaceutical company headquartered in Ireland.
  • The top twenty trial sponsors as ranked by the tracker – those with the lowest proportion of trials that haven’t published results – are all pharmaceutical companies.

Grassetto mio. Poco meno di metà violano l’etica della ricerca e il patto di fiducia con i volontari:

We should all be outraged that in the last 10 years 8.7 million patients have taken part in trials that haven’t published results. These people volunteered for a clinical trial trusting that whatever was found out in the trial would be shared with doctors and researchers and used to make life better for patients like them.

Rispetto agli ospedali universitari francesi e alla maggioranza dei centri di ricerca pubblici sponsorizzati da Big Pharma, le Big Pharma stesse fanno quasi bella figura.

Sanofi ha il maggior numero di non pubblicazioni, ma “solo” il 65,5% rispetto all’indifendibile 80,3% dell’Alliance for Clinical Trials in Oncology, una fondazione non profit – e al 73% della Big Food Nestlé. Da confrontare con il 5,1% di Elli Lilly che s’era meritata una cattiva reputazione per certi psicofarmaci.

Rif. anche Heidi Ledford su Nature, Ed Silverman su STAT.

(1) A quando uno così per l’Italia?

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Lies, damned lies and statistics

Possible polling error o correlated errors? Da domani, il NY Times è gratis fino alla pubblicazione dei risultati elettorali…

4 commenti

  1. @Sylvie: “Rif. Retraction Watch per i particolari.”
    Il link a Retraction Watch è errato; sono due link in uno, di cui il primo punta al blog della FuF, e quello si apre anziché RW.
    @Sylvie: “One trial sponsor has published no results at all for any of the 35 trials it has run in the last 10 years: Ranbaxy Laboratories Limited, a multinational pharmaceutical company with headquarters in India.”
    Ranbaxy è anche una delle aziende coinvolte nello scandalo scientifico del Paroxetine (non ricordo più in che variante viene prodotto da Ranbaxy, forse il Paxil), l’antidepressivo che non fa assolutamente nulla ma che ciò nonostante viene prescritto ugualmente: https://www.scientificamerican.com/article/analysis-of-gsk-s-paroxetine-antidepressant-finds-key-data-was-held-back/ Pensavo che solo GlaxoSmithKline fosse la controparte evil in questa vicenda, ed invece scopro oggi che pure l’azienda Indiana si comporta come GSK e non pubblica nulla.

    1. Mauro,
      grazie, ho corretto!
      Ranbaxy non ha una buona reputazione tra le Ong che operano in India. Devono comprare farmaci generici prodotti in loco, ma non si possono fidare.

  2. Ah, pure scarsi standard di produzione; la reazione di USFDA mi sembra il minimo.
    Immagino non ci siano altre alternative per le Ong che operano in India, dato i prezzi elevati dei medicinali se importati dall’estero.

    1. Mauro,
      sì, per le Ong sanitarie è un guaio. Il “buy local” doveva sostenere lo sviluppo e costringere le Big Pharma straniere a vendere a prezzi più bassi nei paesi poveri. In India, le straniere si sono alleate con quelle locali e – no coincidence – ci sono pesanti import duties sui farmaci importati, perfino sui vaccini. Per di più India e Cina producono quasi tutti i farmaci contraffatti venduti nel mondo.
      Il Brasile mi sembra l’unico paese con controlli efficaci. Nel 1998 era già nel WTO, ma ha creato un’industria statale all’inizio per via dell’AIDS. Tra l’altro l’ha deciso Cardoso, un social-democratico tendenza meno stato più mercato.

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