Per Julia K. Steinberger

“Che ne pensi?” chiede Paolo C. a proposito di “Scientists’ warning on affluence“, una Prospettiva firmata da Thomas Wiedmann, Manfred Lenzen, Lorenz Keysser e Julia Steinberger.

Che domanda! Julia è una mia maîtresse à penser – e non solo mia, stando alla diversità dei suoi coautori.
Volevo recensire i suoi due paper di marzo

e inserirli nel contesto di quelli precedenti, disparati all’apparenza e uniti da un’esigenza di fairness, di giustizia nei rapporti sociali. Ma c’era la pandemia, “a story of life vs growth“, ero sommersa da altre letture.
Invece in tempi di piani per la ripresa, servirebbe un’infodemia sui lavori di Julia e dei suoi colleghi.

Da circa quindici anni, fa ricerca in ecologia sociale ed economia ecologica, un insieme di molte discipline all’incrocio tra scienze umane ed esatte, fatto di misure, modelli (meno semplicistici dell’Integrated Assessment Modelling!), proiezioni, stime di probabilità, storia delle idee… In termini accademici,

  • le interessa quantificare le connessioni attuali e storiche tra uso delle risorse e parametri socio-economici, e identificare percorsi alternativi di sviluppo per guidare la necessaria transizione a una società a basso tenore di carbonio. 

In pratica mostra che certi incentivi socio-economici e culturali rendono inique le società attuali e come renderle più “giuste e sicure“, sostenibili e resilienti, in equilibrio tra risorse e consumi “sufficienti”, appaganti, non sempre materiali.
L’articolo uscito ieri su Nature Communications è una rassegna della letteratura, un sunto dei temi principali e un programma di ricerca – i dati mancano sempre! – stabilito in base a due priorità. Politica della ricerca e politica tout court.
Fra molto altro, contiene

  • una critica agli Obiettivi dello sviluppo sostenibile, in parte contraddittori e a volte controproducenti, ma sono il frutto di un “processo deliberativo”, di un compromesso;
  • un’analisi delle forzanti economiche e delle loro retroazioni sulla gerarchia sociale;
  • un’organizzazione delle idee “eterogenee” (eufemismo) per un sviluppo diverso, espresse da gruppi sociali, già studiate in letteratura;
  • un panorama delle idee/ideologie a confronto con esempi dei provvedimenti già presi su piccola o grande scala.

E’ un saggio da leggere insieme ai paper citati in bibliografia, o almeno gli abstract, altrimenti rischia di sembrare solo ideologico. Provo solo a darne il sapore marxiano – se a Marx si aggiungono Engels, Flora Tristan e altri critici dell’economia patriarcale – traducendone qualche passaggio.

Il titolo sembra un omaggio a The Opulent Society (1958) di John Kenneth Galbraith, una critica della cultura dell’opulenza privata e della miseria pubblica (forse anche la prima critica del PIL?) negli Stati Uniti dopo la II guerra mondiale e insieme un’idea ottimista della possibilità di renderla meno cruenta, di ridurre quel 22% di popolazione sotto la soglia di povertà.

L’avvertimento dal quale parte la Prospettiva è quello reiterato di recente dagli scienziati sui limiti del pianeta, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, l’emergenza climatica, le crisi ben note e ignorate perché una minoranza vuol diventare sempre più opulenta.
Sono scienziati benintenzionati, però evitano di denunciare il potere del consumismo (“overconsumption”), l’opulenza quale modello economico

  • la soverchiante evidenza degli studi di decomposizione è che, globalmente, consumi fiorenti hanno ridotto o cancellato i benefici ottenuti con il cambiamento tecnologico che mirava a ridurne l’impatto ambientale.

(Gli studi di decomposizione stanno all’economia come gli studi di attribuzione alla climatologia.) I consumi e il loro impatto vengono misurati in impronta pro capite perché dipendono dal reddito, ma

  • il 10% della popolazione mondiale con il reddito maggiore è responsabile per il 25-43% dell’impatto ambientale, e il 10% con il reddito più basso per circa il 3-5%.

Il 10% degli opulenti causa un impatto ambientale crescente proprio dove vive il 10% dei più poveri.
Nella dinamica del capitalismo, l’aumento della produzione di merci e dei consumi è necessario allo sviluppo economico nel senso di aumento del prodotto interno lordo. Siccome il capitale investito deve rendere, bisogna estrarre una maggior produttività dai lavoratori o sostituirli con nuove tecnologie. Per rimanere competitivi sul mercato del lavoro,

  • gli individui sono spinti ad aumentare l’efficienza di costi e tempo investendo in automobili, elettrodomestici, computer e cellulari, a usare i social media e il commercio on line ecc.

I “super-opulenti” continuano a dettare ai lavoratori e alla classe media investimenti e consumi che creano dipendenza, e trasformano in servizi a pagamento i rapporti sociali, per es. la cura di altri e di sé, per es. cucinare e mangiare insieme.

Julia e i suoi coautori classificano le soluzioni proposte per disaccoppiare sviluppo e consumismo e per avviare una decrescita o un’a-crescita o una post-crescita. Le soluzioni “riformatrici” contano sullo stato democratico centralizzato e l’economia di mercato, ma

  • istituzioni socialmente vitali, come lo stato sociale, i mercati del lavoro, la sanità, le pensioni e altri, devono essere riformate per diventare indipendenti dalle istituzioni dedite alla crescita del PIL. Generalmente, movimenti dal basso sono ritenuti cruciali, portano a cambiamenti di valori e culturali verso la sufficienza [consumi necessari a una vita dignitosa e soddisfacente].

Gli approcci “radicali” si dividono in eco-socialisti ed eco-anarchici. Con molte varianti – e parecchi esempi di “punti di svolta sociale” già avvenuti in Brasile, India e Sudafrica – definiscono la decrescita come “una riduzione equa dell’energia e delle risorse che fluiscono in un’economia… una concomitante acquisizione di benessere… un sistema economico stabile che è socialmente giusto e in equilibrio con i limiti ecologici”.

  • La decrescita non mira a una riduzione del PIL di per sé, ma la accetta come l’esito probabile di cambiamenti necessari. Inoltre gli approcci eco-femministi sottolineano il ruolo delle relazioni sociali patriarcali e i paralleli tra oppressione delle donne e sfruttamento della natura, mentre gli approcci post-sviluppo insistono sulle visioni molteplici ed eterogenee per ottenere una simile trasformazione socio-ecologica globalmente, in particolare nel Sud globale.

Anche se gli eco-anarchici non assegnano alcun ruolo allo stato, riformisti e radicali hanno molte proposte in comune. Resta da capire se e come i punti di svolta potrebbero cambiare la dinamica del capitalismo, la sua “materialità”, e limitare gli effetti collaterali del cambiamento.

Il programma di ricerca riguarda il sapere necessario alla comunità accademica in primis per rispondere ad alcune domande

  • Si possono formulare e dimostrare visioni ispiratrici di una vita sostenibile in prosperità, ma entro i limiti planetari e con una minor opulenza materiale?  Come motivare e sostenere nel tempo cambiamenti fondamentali nello stile di vita della parte opulente della popolazione umana? 

Serve ricerca sui comportamenti individuali e collettivi virtuosi; sugli interventi statali efficaci; su come comunicarli e renderli condivisibili,

  • ed è cruciale chiedere “Da chi parte un cambiamento deliberato, radicale, nell’interesse collettivo?”

Una seconda serie di ricerche riguarda la governance della transizione a un’economia a basso tenore di carbonio e quali ne sono gli strumenti indispensabili e realizzabili. Per cominciare bisogna

  • sostituire il PIL come misura della prosperità con una moltitudine di indici alternativi ed essere agnostici nei confronti della crescita.

Il resto è la missione di Action Aid, di molte altre Ong e di tutti quelli che sostengono il movimento dei ragazzi per la giustizia climatica, sociale e ambientale:

  • empowerment (trad. it.?) della cittadinanza perché partecipi ai processi democratici;
  • rafforzare “l’uguaglianza e la ridistribuzione dell’opulenza con la fiscalità, la garanzia di un reddito di base e di un lavoro, un’espansione dei servizi pubblici (per es. come parte di un Green New Deal)”
  • una trasformazione dei sistemi economici con modelli nuovi che incoraggino le economie di condivisione, basate sulla cooperazione invece della competizione
  • e finalmente adattare alla sufficienza locale e alle iniziative della società civile l’acquisizione di capacità, il trasferimento di sapere e l’educazione – media e pubblicità incluse.

Niente da ridire…

Com. stampa dell’università di Leeds.

***

O’s digest di Science e The Economist rimandati. Un grazie ad Andrea Merloni, Mara Salvato. Davide Mella e colleghi per il “press kit” con le immagini del cielo visibile nei raggi X.

5 commenti

  1. >>è cruciale chiedere “Da chi parte un cambiamento deliberato, radicale, nell’interesse collettivo?”
    Esattamente. Esiste davvero la possibilità di un cambiamento? O continueremo a mettere toppe qua e là senza cambiare davvero il sistema?

    1. La domanda è rivolta ai ricercatori, Paolo. Per esempio è radicale il disinvestimento nei fossili di hedge funds et al? Stando alle analisi dell’Economist, sul piano finanziario cambia poco o niente.

  2. Ma fintantoché si continua a farsi domande tra ricercatori e non si trovano interlocutori ai piani alti non si va lontano.

  3. Sarà molto difficile trovare inteocutori che si sentano in grado di modificare completamente il sistema politico/economico mondiale esistente a qualunque piano, tranne è ovvio che sul piano delle affermazioni astratte e delle intenzioni.
    II motivi si trovano leggendo il contenuto di “A good life for all within planetary boundary”. Da segnalare soprattutto la fig. 2 e la conclusione, sulla quale non si può che essere maledettamente d’accordo: “if all people are to lead a good life within planetary boundaries, then the level of resource use associated with meeting basic needs must be dramatically reduced”.

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