Rouspétance. Non so gli altri abbonati, ma – scoperta salvavita a parte – sarei più contenta se Science e Nature non anticipassero i paper online prima della pubblicazione nella rivista. Quando esce, ho l’impressione che una parte sia già superata e neppure così rilevante da dover uscire un mese o due prima. Scoraggia un po’ la lettura dei paper nuovi, trovo, e sono già abbastanza distratta dalle news quotidiane.
Non le apro più con la stessa curiosità. (Ricevo le anticipazioni dell’uff. stampa, do un’occhiata e da pensionata le dimentico subito, mica devo scriverne o parlarne appena scaduto l’embargo…)
Per gli autori ci saranno buoni motivi – un dottorato da concludere, un concorso, una richiesta di grant o di brevetto – ma non me ne viene in mente uno per il quale non basterebbe un pdf con la data dell’accettazione da parte di una rivista “prestigiosa”.
Fin de la rouspétance e O’s digest
Il malumore m’è passato ieri. Su Nature, l’editoriale “Pulling carbon from the sky is necessary but not sufficient” (repetita ad infinitum juvant?) rimanda al modello agro-chimico-tecnico-economico di David Beerling e molti altri in svariate discipline, tra cui Jim Hansen. (Mi ha ricordato che all’inizio di Sophie’s planet parla di nonni e prozii emigrati in USA, prima braccianti e poi mezzadri e contadini con un po’ di terra, rovinati dalle intemperie. Il paper è a pagamento, ma ha messo la bozza non impaginata su google drive).
Lo scenario è un processo detto enhanced rock weathering (ERW). In questo caso, consiste nello spargere tonnellate di polvere di basalto sui campi coltivati dopo i raccolti, per rafforzare la rimozione della CO2 atmosferica (CDR) dei silicati. Quando reagiscono con l’acqua, con il carbonio formano dei bicarbonati che riducono l’acidità del suolo, ci aggiungono nutrienti, e finiscono sciolti nei fiumi e in mare.
E’ un modello preliminare fino al 2050, avvertono, ci sono ancora troppe incertezze da limitare con degli esperimenti pluriennali (alcuni sono già in corso, ma solo in quattro paesi), i suoli coltivati hanno storie diverse. Comunque risulta che
- Cina, India, USA e Brasile hanno il maggior potenziale per contribuire a raggiungere una CDR media globale fra 0,5 e 2 gigatonnellate di CO2/anno con costi di estrazione di circa US$80–180 a tonnellata.
I primi tre paesi sono i peggiori emittenti di CO2; in India, Cina e nei paesi poveri, il costo è dimezzato o quasi.
Il potenziale è minore per le polveri delle miniere di basalto, non valgono niente, e forse la CDR funzionerebbe anche con cemento macinato o scorie di ferro e acciaio.
Insieme a una riduzione drastica e urgente delle emissioni, sarebbe una delle soluzioni utili per non superare +2 °C a fine secolo – se ci fosse la volontà politica.
E’ il primo modello del genere che vedo – nella bibliografia, ce n’è solo uno di Beerling et al. sullo stesso tema – e in realtà somiglia parecchio a un programma mondiale di ricerche multidisciplinari da fare sul campo e in silico.
Nel commento, Johannes Lehmann (suoli) e di Angela Possinger (foreste) sono molto d’accordo sul potenziale delle ERW che migliorano la produzione alimentare. Ma i soldi per queste ricerche sono pochi, quindi
- Gli agricoltori devono sostenere pienamente un simile sforzo globale o fallirà. Gli scienziati devono riconoscere che la mitigazione dei cambiamenti climatici di per sé non è un incentivo sufficiente e che i benefici per le colture sono da rendere prioritari, insieme agli incentivi finanziari.
Sperem… finora Pedro Sanchez e i suoi amici al JRC di Ispra non sono stati ascoltati, forse perché BigAgro non è affatto interessata.
Rif. anche The Guardian, com. stampa dell’università di Sheffield, e presentazione di Jim Hansen intitolata “Weathering Heights” – great pun. Il tutto da far girare nelle Ong umanitarie, ça va sans dire.
Sulle CDR future come nuovo “business” delle BigOil nel 2050 c’era uno scenario “what if?” inventato ma plausibile nell’Economist della settimana scorsa. Era intitolato “Big Suck“.
A proposito di “lassi di tempo”, Jim Hansen descrive la risposta ritardata del clima alle forzanti, ma anche di quella ritardata dalle BigOil in “Inhabitabilty and Exxon“.
Julia Steinberger confronta i cambiamenti climatici nel nostro lasso di tempo umano e quelli avvenuti in 15 milioni di anni.
Time pubblica un numero speciale sulla crisi climatica.
Da Real Climate, Michael Tobis demolisce le tesi di Michael Shellenberger in un saggio – per via della legge di Brandolini – raccomandato ad eventuali lettori del Foglio, l’unico quotidiano italiano fan di Shellenberger se non sbaglio.
Agg.: sbagliavo, anche Libero.
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A proposito di BigAgro
Un anno e rotti fa, in radio avevo parlato dei quattro paper di Environmental Health sugli effetti del glifosato nei topi. Dagli esperimenti fatti al Ramazzini risultava che è un interferente endocrino. Come altri erbicidi.
Non mi fido molto di Scientific Reports, ma in aprile il risultato era stato confermato nelle quaglie Coturnix japonica da Suvi Ruuskanen e altri ricercatori finlandesi: il glifosato assorbito dai genitori danneggia o modifica lievemente lo sviluppo embrionale dei pulcini rispetto a quelli del gruppo di controllo.
Il paper mi sembra corretto, e senza grandi pretese. Statisticamente, è un effetto debole “da interpretare con cura” visto il campione ridotto di animali, scrivevano, e in natura come negli allevamenti è probabile che le quaglie siano esposte a fitofarmaci peggiori. Su Environmental Pollution – un rivista un po’ più esigente di solito – hanno appena pubblicato i risultati finali del loro esperimento. Sono un’ulteriore conferma. L’esposizione al glifosato
- riduceva l’attività dei marcatori epatici antiossidanti
- influenzava la composizione del microbioma intestinale in particolare nelle prime settimane di vita (proprio come nei topolini)
- diminuiva il testosterone maschile nei maschi di ogni età
Strano. Diversamente dai maschi, le femmine “preferivano” il cibo al glifosato.
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Su Science, l’editoriale del direttore “Monumental Patience” è un omaggio commosso a Jane Goodall, nel 60° anniversario del suo arrivo nell’attuale parco nazionale di Gombe, per dedicare una vita a studiare la vita degli scimpanzé.
Il bravo Kai Kupferschmidt passa in rassegna i risultati dei vari trial con farmaci potenzialmente efficaci contro il covid-19, fatti in Gran Bretagna e raggruppati sotto il nome di “Recovery”. A volte deludenti, ma almeno fatti il meglio possibile in condizioni un po’ disperate.
Fra i molti paper sul covid-19, merita un’occhiata il modello (va be’, ma è bayiesiano) di Jonas Dehning et al. sull’efficacia delle misure di contenimento applicate in Germania dal 2 marzo in poi.
Work in progress…